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18 Febbraio 2016 | Racconti d'autore

Underground Story

Racconto di Marco Pesaresi tratto dal libro omonimo (sottotitolo: “Diario inedito”, Ravenna, Danilo Montanari Editore, 2015)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

Calcutta, aprile 1995: il fotografo riminese Marco Pesaresi esplora la metropolitana della città indiana durante il viaggio planetario che lo porta nelle ferrovie sotterranee del mondo. Leggiamo alcune pagine del suo diario inedito…

All’età di 17 anni frequentavo spesso un ragazzo di circa 28 anni, adorava l’India e c’era stato varie volte fotografandola. Mostrava dei colori sensuali, arancio, gialli luminosi, bianchi, rosso vermiglio e la luce sempre corretta e raffinata. Vidi un’immagine in b/n del Nepal profonda e bellissima. Iniziai a sentire la fotografia e amarla. Comprai una Nikon FE, il tipo di camera che uso tuttora. Sognavo la metropolitana di Calcutta e l’immaginavo in legno, ariosa, vivida nei colori, con un percorso esterno vicino al mare, con il cielo azzurro, completa fantasia. Partii per Calcutta alla fine dell’aprile ’95 via Amsterdam con KLM, durante il volo lessi il libro di Noam Chomsky “Il potere dei media”. Facemmo scalo a Nuova Delhi e arrivammo a Calcutta alle due di mattina, il boeing era semivuoto, solo una decina di persone più l’equipaggio.
Appena uscito dall’aereo, una vampata d’aria calda e umida colpì la mia persona. Entrai nell’aeroporto, sopra nastri per il recupero bagagli dormivano alcuni indiani allungati in modo ondulato. Raggiunsi l’hotel di fianco all’aeroporto, chiesi sigarette e una stanza, fui accontentato. Fumai avidamente una sigaretta, posizionai nel modo corretto le tende di fronte alle finestre e provai a dormire. Non mi riusciva, la mente vagava nervosamente da un pensiero all’altro senza sosta alcuna, verso le quattro mi addormentai ma con le prime luci bianche e brillanti dell’alba mi svegliai, andai alla finestra e vidi un paesaggio che mai dimenticherò: tanti specchi d’acqua circondati da palme e fitta vegetazione, animali, bambini, uomini, donne che camminavano per viottoli e stradine. Non vedevo cemento, solo verde e azzurro. Lontano, molto lontano, le prime baracche di Calcutta.
Dopo alcune ore lasciai l’hotel dirigendomi in taxi verso il centro, cercavo la linea esterna dell’immaginario a Rimini ma non la trovai. La strada era cosparsa di buche, caotica, con alberi d’un verde intenso e luminoso situati ai margini, i quali congiungevano i rami e il fogliame creando una cupola continua. Raggi dorati penetravano illuminando uomini e donne vestiti con colori vivi e intensi. Percepivo armonia e bellezza. Dopo alcuni chilometri incontrammo le prime orribili, nauseanti baracche ai fianchi della strada. Intere famiglie vivevano in condizioni di vita impossibili; l’asfalto emanava un odore di bollente gomma bruciata e benzina, miscelato all’acre lezzo di sporcizia delle baracche. La temperatura era di circa 40° con un tasso di umidità altissimo. Cercavo le visioni del libro “La città della gioia” e costantemente le trovavo.

Entrando nella città il traffico aumentava vistosamente, i suoni dei clacson impazzivano nell’aria, grida continue provenivano dagli angoli delle strade, creando uno scenario multiforme, indistinto e incomprensibile. Il taxista mi consigliò un hotel vicino Park Street, il Fairlawn in stile coloniale, carino e gradevole, a un prezzo accessibile. Sistemai le valigie, trovai una cartina dell’Underground e mi accorsi che il sistema metropolitano era costituito da una sola linea, composta da 17 stazioni, di cui una, la Mahatma Gandhi Road, era in costruzione nella centralissima Central Avenue, quindi, dopo aver percorso le prime 11 stazioni, si doveva uscire dalla metro a Central Station camminare nella Central Avenue per circa 300 metri, riprendere l’Underground a Girish Park, e raggiungere Dum Dum Station dopo altre quattro fermate. Incredibile.
Nel pomeriggio andai a fotografare, presi la metro a Park Street Station e la prima cosa che notai fu la grande scritta “Photography is forbidden”. Faceva un caldo incredibile, credo circa 45°, umidissimo (la plastica del barilotto dell’obiettivo, dopo alcune ore di lavoro, scivolò via lasciando il metallo scoperto), una dolce musichetta indiana si diffondeva nei bassi spazi della metro. Molti indiani sedevano per terra. Scattai alcune foto e venni subito bloccato alle spalle da un cittadino di Calcutta, il quale mi consegnò al poliziotto della stazione. Non opponevo resistenza, non mi sentivo colpevole di nulla. Il poliziotto mi accompagnò in un ufficio simile a una guardiola, dove si trovava il responsabile. Voleva conoscere le motivazioni delle fotografie colte e inoltre dovevo consegnarli il rullo qualunque fosse stata la risposta, poiché questa era la prassi. Parlava un inglese stretto, inframmezzato di parole indiane, difficilmente comprensibile.
Dopo circa 10 minuti di reciproci monologhi riuscii a comprendere che per avere l’autorizzazione dovevo andare al CPRO (Chief Public Relation Officer), un edificio vicino a Park Street. L’agenzia spedì un fax illustrante il progetto metropolitane nei dettagli e con il foglio mi recai al CPRO per l’autorizzazione; dovetti aspettare 3 giorni per avere il pass con il quale poter realizzare un reportage di 4 giorni nella metropolitana. Passai ore ad attenderlo in uno stanzino di legno consumato con delle vetrate crepate in alcuni punti, adiacente a numerose stanze semivuote piene di macchine da scrivere inutilizzate.
Dividevo questo stanzino con uno storpio, il cui compito era quello di portare il caffè e il thè agli impiegati del piano. Camminava con il vassoio oscillante come un pendolo ma mai una goccia cadde. Era sempre vestito in bianco. Furono giorni lunghi e snervanti ma alla fine il pass venne concesso. Un giorno sostavo nella stazione Jatin Das Park aspettando il tube che non arrivava mai (ne passa uno ogni 15/20 minuti) quando un gruppo di ragazzi si avvicinò, scrutandomi dall’alto al basso e dicendo in inglese “We don’t like israelian people”, risposi prontamente “I come from Italy, I’m italian”; i ragazzi mi guardarono sorridendo maliziosi, andandosene.

Un sabato pomeriggio mi trovavo all’esterno della stazione Chandni Chowk, anch’essa in costruzione (solo l’esterno, la linea ferroviaria funziona) e fotografavo il simbolo comunista della falce e martello dipinto sul muro con la gente che camminava di fianco. Calcutta è una città con una forte base comunista, il 55% della popolazione è musulmana, il 45% indù e il 5% sikh. All’improvviso una persona alta un metro e 40 cm, a torso nudo, con un velo amaranto legato alla vita, scalzo, con le mani sui fianchi, si diresse contro di me. Pretendeva il film senza darmi nessuna spiegazione, mostrai l’autorizzazione, non gliene importava nulla, voleva il film a tutti i costi. Si radunarono circa un centinaio di persone, alcuni mi davano ragione, altri torto e la situazione non si sbloccava. Fortunatamente un gruppo di uomini arrivò, prese le mie parti e potei andarmene via velocemente scomparendo nella folla. I treni dell’Underground di Calcutta hanno una caratteristica particolare: non esistono porte tra i vari vagoni, quindi il tube è percorribile da cima a fondo. Quando si viaggia e si guarda in profondità sembra di essere nel ventre di un serpente in movimento, soprattutto quando il treno ondeggia o curva.

Un giorno, nel tardo pomeriggio, un ragazzo sui 30 anni mi mostrò un documento e disse di seguirlo nel treno. Percorremmo a una certa velocità tutti i vagoni raggiungendo quello di testa, dove mi fece sedere di fianco a un uomo di una certa età che mi interrogò chiedendo le solite cose. Mi obbligò a restare seduto per alcune fermate poi salutò e scomparì al capolinea. Dei 4 giorni avuti a disposizione potei usufruire solo di 3, poiché un giorno lo passai ammalato nel letto con una forte febbre e diarrea. Lavorai continuamente per 3 giorni nonostante le innumerevoli difficoltà, prima tra tutte quella di dover mostrare quasi sempre dopo ogni fotografia l’autorizzazione e rispondere alle solite, curiose e inutili domande. Nella metropolitana di Calcutta gli attributi che un fotografo deve avere sono la determinazione, l’intuito e buon’ultima la pazienza.

Il reportage nell’Underground fu breve e intenso, rimasero altri giorni per scoprire la città. Decisi di realizzare alcune foto sugli uomini/cavallo o meglio gli uomini/risciò ed ebbi la possibilità di conoscere una piccola parte di Calcutta e dei suoi abitanti. Mi abbandonai in un’umanità ricca di dolcezza, sofferenza e accettazione. Spesso il pomeriggio, verso le 17, andavo nell’area musulmana dietro Sudder Street ad ascoltare il Muezzin che richiamava i fedeli alla preghiera. Strade brulicanti di persone si svuotavano completamente alle prime voci del canto.
Passavo le giornate girovagando da una strada all’altra, cercando foto di luce e speranza. Un giorno camminavo in una strada vicino la Central Avenue, quando in un angolo vidi una donna seduta sull’uscio di una casa fatta di cartoni e plastica. Preparava un thè con al fianco un uomo/cavallo e il risciò; la visione era triste, commovente, piena di dignità nei confronti della vita e della storia. Rinunciai a fotografare, non me la sentii di violare l’ambiente, la privacy.
Negli ultimi giorni ho incontrato un taxista sikh il quale mi ha fatto conoscere Kalighat Temple, il giardino botanico e altre intime caratteristiche degli abitanti di una città rimastami nel cuore. La notte della partenza tornammo all’aeroporto con un pullman della KLM, passando in zone della città sconosciute. Sopra alcuni marciapiedi dormivano sdraiati uno di fianco all’altro, in molteplici file unite e parallele, uomini, donne e bambini, originando lunghi tappeti umani. Lasciai Calcutta con questa visione.

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[Per volontà di Isa Perazzini, madre di Marco Pesaresi, dal giugno 2015 l’intero archivio fotografico del figlio è stato riunito nei locali di Palazzo Vendemini a Savignano sul Rubicone (Forlì-Cesena). Si è costituito così un fondo unico composto da oltre 55.000 tra fotografie, negativi, provini e diapositive, prodotti da questro autore durante la sua ventennale carriera nell’ambito del fotoreportage. L’Amministrazione comunale di Savignano sul Rubicone e l’Associazione “Savignano Immagini” si sono assunte il compito di conservare, catalogare e sviluppare negli anni a seguire questo patrimonio. La pubblicazione del libro “Underground Story”, curato da Paola Sobrero e Beatrice Lontani per l’editore ravennate Danilo Montanari, rappresenta l’ultimo progetto teso a far conoscere l’opera di Marco Pesaresi. Per approfondire: www.sifest.it/marco-pesaresi-fotografo/]

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