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17 Luglio 2012 | Archivio / Protagonisti

Giovanni Pascoli nel centenario della morte

Il nostro piccolo omaggio al poeta “fanciullino”

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

17 luglio 2012

“La poesia consiste nella visione di un particolare inavvertito, dentro e fuori di noi”. Così scriveva Giovanni Pascoli ne “Il fanciullino”. Cari amici, non possiamo lasciar passare il 2012 senza dedicare qualche puntata dei nostri “Protagonisti” a Giovanni Pascoli, il grande poeta romagnolo di cui ricorre quest’anno il centenario della morte. Moltissimi sono gli eventi organizzati per ricordarlo, in Emilia-Romagna e anche in Toscana, regione che lo considera anche suo perché il poeta – romagnolo di nascita e legato a Bologna – qui vi ricostruisce il suo nido familiare.  

Sono queste due regioni a disputarsi, quindi, il lascito testamentario culturale del poeta, se così possiamo dire. La Romagna è l’infanzia, prima beata e poi tragica per le note vicende familiari: il padre Ruggero ucciso da una fucilata mentre sul proprio calesse tornava a casa, a San Mauro, dalla vicina Cesena, quando Giovannino aveva solo dodici anni. Bologna, sono gli studi, la cultura e l’accademia: nella sua Università si laurea e nella sua Università  nel 1905 succede a Giosuè Carducci nella cattedra di letteratura italiana.
La Toscana, è la ricostruzione del nido: nella valle del Serchio (“venni a Barga, vidi che c’era bello e sostai”) cerca di ricomporre gli affetti e le memorie familiari devastati dai lutti. A Castelvecchio, ricostruì il suo mondo chiuso su se stesso, come per non avere più interferenze esterne che potessero turbarlo, e trascorse gli anni più tranquilli della sua vita,  componendo i Primi Poemetti (1897), Myricae (1903), i Canti di Castelvecchio (1903) e i Poemi Conviviali (1904).
Due sono, perciò, i luoghi pascoliani da visitare: la casa-museo di Castelvecchio di Barga, dove tutto è rimasto come cent’anni fa, con i vestiti e gli oggetti conservati come se il tempo avesse imbalsamato la vita quotidiana che il poeta e la sorella Maria avevano trascorso lì dentro, e la casa di famiglia di San Mauro di Romagna, dove venne alla luce il 31 dicembre 1855. Qui Pascoli trascorse gli anni dell’infanzia e qui la famiglia, trasferitasi per un breve periodo alla tenuta Torlonia, fece ritorno dopo la morte del padre Ruggero, per poi essere costretta a venderla, in seguito alle altre disgrazie come la morte della madre, della sorella Margherita, del fratello Luigi e del fratello maggiore Giacomo. Il poeta rimase sempre molto legato a questa casa che, distrutta durante la seconda guerra mondiale fu ricostruita tale e quale e trasformata in piccolo museo domestico. All’interno oltre alla cucina, l’unica parte che si era salvata dalla distruzione, si possono vedere lo studio nel quale si conservano, racchiuse in bacheche, edizioni rare di alcune sue opere e numerose lettere autografe inviate agli amici di San Mauro e la camera da letto, con la vecchissima culla di legno. All’esterno, un bel giardino con alcune delle piante ricordate dal poeta nelle sue poesie. Casa Pascoli è monumento nazionale dal 1924.

Nel centenario della morte, l’Università di Bologna ha dedicato a Pascoli una tre giorni di studi con ospite d’onore Seamus Heaney, il poeta irlandese Premio Nobel 1995 per la letteratura, grande ammiratore di Pascoli, di cui ha tradotto per l’occasione alcune poesie in inglese. Heaney ha ricordato l’importanza della poesia di Pascoli per la cultura italiana, non solo per le sue qualità letterarie, ma anche per essersi insediata nell’immaginario collettivo, favorita dalla massima popolarità di certi suoi componimenti insegnati fin dalla scuola elementare a molte generazioni del Novecento. A questo proposito, è stato detto autorevolmente che le sue opere sono tra quelle che più hanno contribuito a “fare gli italiani”. Sono stati rievocati i miti personali pascoliani dell’infanzia e della famiglia, espressi con i simboli del nido e della casa, e i miti collettivi del colonialismo e dell’esotismo orientale, con estensione ai mezzi espressivi del teatro e della musica. Su quest’ultimo aspetto, è stato curato dal  conservatorio Martini un concerto con musiche su parole e suggestioni pascoliane.
La poesia di Pascoli, come tutti sappiamo, è ricca di tematiche politiche e sociali. Ricordiamo che in gioventù fu arrestato e incarcerato a Bologna per aver aderito al movimento socialista-anarchico di Andrea Costa. Anche negli ultimi anni di vita, i rivolgimenti politici e sociali che stavano portando l’Italia nel baratro della prima guerra mondiale ebbero effetto su di lui, già incline alla depressione e all’alcolismo. Ma a straziarlo fu, soprattutto, l’impossibilità di ricostituire quel nido di affetti familiari che aveva sognato tutta la vita. In fondo, tutta la sua opera di poeta decadente non è che la ricerca di quel nido e l’abbandono alla natura, al mondo agreste, il solo in grado di custodire il ricordo del nostro dolore.
Nella prefazione ai Canti di Castelvecchio scrive: «Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensiero della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico. D’altra parte queste poesie sono nate quasi tutte in campagna; e non c’è visione che più campeggi o sul bianco della gran nave o sul verde delle selve o sul biondo del grano, che quella dei trasporti o delle comunioni che passano: e non c’è suono che più si distingua sul fragor dei fiumi e dei ruscelli, su lo stormir delle piante, sul canto delle cicale e degli uccelli, che quello delle Avemarie. Crescano e fioriscano intorno all’antica tomba della mia giovane madre queste myricae (diciamo cesti o stipe) autunnali».
Giovanni Pascoli si spense a Bologna, malato di cirrosi epatica e con un cancro allo stomaco, il 6 aprile 1912, all’età di 56 anni.

Chiudiamo con una sua poesia tratta dai Canti di Castelvecchio.

Il ritorno a San Mauro

Commiato

Una stella sbocciò nell’aria.
Le risplendé nelle pupille.
Su la campagna solitaria
tremava il pianto delle squille.
– E’ ora, o figlio, ora ch’io vada.
Sono stata con te lunghe ore.
Tra questi bussi è la mia strada;
la tua, tra quelle acacie in fiore.
Sii buono e forte, o figlio mio:
va dove t’aspettano. Addio!
…Venir con te? Ma non è dato!
Sai pure: m’han cacciata via.
Ci fu chi non mi volle allato
nel mondo, così larga via;
chi non permise che, sia pure,
stessi con le mie creature.
…Tu venir qui? Viene chi muore…
E tu vuoi dunque venir qui.
Sei stanco: è vero? Hai male al cuore.
Quel male l’ebbi anch’io, Zvanî!
E’ un male che non fa dormire;
ma che alfine poi fa morire. –
Si chiudevano i casolari.
Cresceva l’ombra delle cose.
Ancor tra i lontani filari
traspariva color di rose.
– Ma dimmi, o madre, dimmi almeno,
se nel tramonto del suo giorno
tuo figlio si deve sereno
preparare per un ritorno!
se ciò che qualcuno ci prende,
v’è qualch’altro che ce lo rende!
Ricorderò quella preghiera
con quei gesti e segni soavi;
tuo figlio risarà qual era
allora che glieli insegnavi:
s’abbraccerà tutto all’altare:
ma fa che ritorni a sperare!
A sperare e ora e nell’ora
così bella se a te conduce!
O madre, fa ch’io creda ancora
in ciò ch’è amore, in ciò ch’è luce!
O madre, a me non dire, Addio,
se di là è, se teco è Dio! –
Sfioriva il crepuscolo stanco.
Cadeva dal cielo rugiada.
Non c’era avanti me, che il bianco
della silenziosa strada.

Brano corrente

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