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24 Marzo 2020 | Racconti d'autore

Nel mezzo del cammin di nostra vita

Estratto da “Dantemotivo”, colonna sonora alla recitazione dell’“Inferno” di Dante Alighieri: musica di Michele Bacci, voce di Alessandro Zurla

A cura di Vittorio Ferorelli (Istituto Beni Culturali Regione Emilia-Romagna). Musica di Michele Bacci, lettura di Alessandro Zurla

Il musicista Michele Bacci e l’attore Alessandro Zurla sono i protagonisti di “Dantemotivo”, un progetto che interpreta in chiave sonora la “Divina Commedia”, in cui la voce recitante e la musica originale invitano a immaginare il racconto come se fosse un film. In occasione del “Dantedì 2020” vi proponiamo un estratto dai primi due volumi dedicati all’“Inferno”: il Canto Primo, con lo smarrimento del poeta nella selva e l’incontro con Virgilio.

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,

guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.

Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.

E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,

così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.

Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;

e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.

Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino

mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle

l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.

Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.

E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;

tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace.

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.

Quando vidi costui nel gran diserto,
Miserere di me”, gridai a lui,
”qual che tu sii, od ombra od omo certo!”.

Rispuosemi: “Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.

Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?”.   

”Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?”,
rispuos’io lui con vergognosa fronte.     

”O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume.

Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore.

Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi”.

”A te convien tenere altro vïaggio”,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
”se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;  

ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;       

e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.

Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.

Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.

Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde ’nvidia prima dipartilla.

Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;

ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida;

e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.

A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;

ché quello imperador che là sù regna,
perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna.

In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
oh felice colui cu’ ivi elegge!”.

E io a lui: “Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch’io fugga questo male e peggio,

che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti”.

Allor si mosse, e io li tenni dietro.

[testo tratto dal volume: La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di Giorgio Petrocchi, Firenze, Casa Editrice Le Lettere, 1994 (“Le opere di Dante Alighieri. Edizione nazionale a cura della Società Dantesca Italiana”)]

Parafrasi
A metà del viaggio dell’esistenza (a circa 35 anni, cioè nella primavera del 1300) mi ritrovai perso in una foresta buia poiché la corretta direzione del viaggio dell’esistenza, quella del bene e della giustizia, era stata temporaneamente persa di vista. È molto difficile descrivere a parole l’aspetto della selva, questa foresta priva di presenze umane, intricata e difficile da attraversare, che solo a ripensarci provoca nuovamente spavento.
La vita nel peccato (selva) è così angosciosa che di poco la supera la dannazione eterna (morte, morte dell’anima) ma per parlare diffusamente del bene, cioè della possibilità di raggiungere la grazia, che incontrai nella selva, dovrò parlare di tutto quello che vi ho trovato. Non saprei spiegare con precisione come e quando entrai nella selva, poiché al momento in cui abbandonai la via del bene la mia mente non era lucida. Ma dopo che ebbi raggiunto una collina che si ergeva al termine della pianura occupata dalla selva, che tanto mi aveva trafitto il cuore di paura, guardai verso l’alto e vidi che già i raggi del sole (che guida ogni uomo in modo retto, qualunque direzione segua) cominciavano a illuminarne la cima.
Allora, l’angoscia che mi aveva oppresso tutta la notte trascorsa nella selva, si calmò un poco. Come chi, appena raggiunta faticosamente la riva dal mare aperto, si volta a guardare ancora con spavento l’acqua in cui ha corso il rischio di annegare, così la mia mente, che ancora pensava a fuggire dalla selva, si voltò a guardare il luogo che non aveva mai risparmiato la vita a nessuno.
Dopo aver riposato un po’ il corpo stanco, ripresi il cammino per un pendio solitario, cominciando a salire. Ma ecco, quasi all’inizio della salita, mi si parò davanti una “lonza” molto agile e veloce, e con il pelo a macchie; e rimaneva davanti a me, ostacolando tanto il mio cammino, che più volte fui sul punto di tornare indietro.
Era l’alba e il sole saliva in cielo trovandosi nella medesima costellazione in cui era quando Dio per la prima volta mise in movimento tutto il firmamento; cosicché l’ora dell’inizio del giorno e la primavera mi inducevano a sperare di poter sfuggire a quella belva dal pelo elegante, ma non fino al punto che non mi spaventasse nuovamente l’apparizione improvvisa di un leone.
Il leone sembrava sul punto di attaccarmi con la testa alta e l’atteggiamento famelico, così minaccioso da far tremare l’aria intorno a sé. E una lupa, che era così magra da sembrare afflitta da un’infinita bramosia, e che aveva provocato la sofferenza di molte persone, questa mi provocò una tale angoscia con il suo aspetto spaventoso, che persi la speranza di poter salire. E come colui che, dopo aver accumulato felicemente ricchezze, quando perde tutto cade nella più completa disperazione, così feci io a causa della lupa, la quale venendomi incontro mi spingeva di nuovo verso il buio della selva.
Mentre io precipitavo in basso, mi si parò davanti qualcuno, che sembrava indebolito da un lungo silenzio. Quando vidi questa figura umana nella grande solitudine del luogo, gli gridai di avere pietà di me, chiunque fosse, fantasma o uomo reale. Mi rispose che non era un uomo, ma che lo era stato, e che i suoi genitori provenivano dall’Italia settentrionale, mantovani entrambi di nascita.
“Nacqui all’epoca di Giulio Cesare, ma troppo tardi perché potesse apprezzare la mia arte, vissi a Roma nell’epoca di Augusto, imperatore saggio e buono, al tempo degli dei falsi e ingannevoli. Fui poeta, e nella mia opera cantai le imprese di Enea, il valoroso e retto figlio di Anchise che, dopo la distruzione della sua superba rocca, fuggì dalla città di Troia. Ma tu, perché ritorni alla grande angoscia della selva, invece di salire il colle che porta felicità, origine prima e causa di ogni perfetta beatitudine?”
“Allora sei tu quel famoso Virgilio, quella sorgente da cui sgorga un così ampio fiume di parole poetiche?” risposi io in atteggiamento rispettoso. “Nei confronti di te, che onori e illumini l’opera degli altri poeti, mi sia utile l’assiduo studio e il profondo amore con cui ho letto e riletto il tuo libro. Tu sei il ,io maestro e lo scrittore per me più prestigioso, tu sei la sola fonte dello stile alto che mi ha dato la fama. Vedi la lupa a causa della quale mi rivolsi di nuovo verso la selva, aiutami contro di lei, o famoso poeta, perché mi impaurisce a tale punto da farmi tremare le vene e le arterie”.
“È necessario che tu prenda una strada diversa”, rispose, vedendo che piangevo, “se vuoi allontanarti da questo luogo selvaggio, perché questa lupa contro la quale mi chiedi aiuto non permette a nessuno di passare per la sua via, ma ostacola tutti fino a ucciderli; e ha una natura così malvagia e crudele che la sua bramosia non è mai sazia, e dopo il pasto ha più fame di prima. La lupa si attacca a molti uomini, e si attaccherà a molti di più, finché non arriverà il Veltro, che la farà morire in modo doloroso. Il Veltro non darà avido di ricchezze né di terre, ma al contrario tenderà verso Dio (che è sapienza, amore e virtù), e sarà di origini umili. Sarà la salvezza dell’Italia, per la quale morirono feriti in battaglia la vergine guerriera Camilla, Eurialo, Turno e Niso. Il veltro darà la caccia alla lupa per ogni luogo, finché non l’avrà rimandata in Inferno, da cui la spinse fuori l’odio del demonio verso gli uomini. Perciò, per il tuo bene, ritengo e decido che tu mi segua, e io sarò la tua guida, e ti condurrò fuori da qui attraverso un luogo che durerà per l’eternità, dove udrai le urla di disperazione dei dannati, vedrai gli spiriti che soffrono fin dai tempi più antichi, in modo che ciascuno di loro deplora la morte dell’anima; e vedrai anche coloro che sono contenti della loro pena, perché sperano di unirsi, prima o poi, ai beati in Paradiso. Se poi vorrai vedere gli spiriti beati, ci sarà a guidarti un’anima più degna di me: io me ne andrò, lasciandoti con lei, perché Dio non permette che io entri nella Città Celeste, siccome in vita non seguii la sua legge. Dio impera su tutto l’universo, ma in Paradiso ha la sua città e il suo trono: beato colui che vi è destinato!”
E io gli dissi: “O poeta, in nome di quel Dio la cui parola non facesti in tempo a conoscere, affinché io possa salvarmi dal peccato e dalla dannazione che ne deriverebbe, ti prego di condurmi nel viaggio di cui mia hai parlato, così che io possa vedere la porta del Paradiso e coloro che hai descritto come tanto infelici”.
Allora si mise in cammino e io lo seguii.

[testo tratto dal volume: Dante Alighieri, La commedia, a cura di Bianca Garavelli, Milano, Bompiani, 1993]

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Su RadioEmiliaRomagna si può leggere e ascoltare anche la puntata sul progetto “Dantemotivo” dedicata al Canto Quinto dell’”Inferno”, con l’apparizione di Paolo e Francesca nel girone dei lussuriosi.

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