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27 Giugno 2019 | Racconti d'autore

Con mano che vede

Testo tratto dal libro omonimo di Claudio Ballestracci (sottotitolo: “Disegnare per allestire”, a cura di Maria Gregorio, Rimini, Panozzo Editore, 2018)

A cura di Vittorio Ferorelli e Rita Giannini. Lettura di Cesare Imposimato (associazione "Legg'io")

Quando un artista apre il cassetto che contiene i segreti dei suoi progetti offre un dono prezioso: è quello che fa Claudio Ballestracci nel libro che raccoglie i disegni e le storie dei suoi allestimenti per mostre, musei e spazi urbani. Leggiamone le prime pagine, in cui racconta il suo modo di “fare arte”. Ringraziamo per la lettura Cesare Imposimato e l’associazione “Legg’io”.

Disegnare è imparare a vedere, a veder nascere, crescere, espandersi, morire le cose e le persone… Disegnare è anche inventare e creare. Il fenomeno dell’invenzione è sempre successivo all’osservazione. La matita scopre, poi interviene nell’azione per guidarvi molto al di là di ciò che avete sotto gli occhi.
Le Corbusier, 1960

E non mi erudisco mentre spio le forme dell’amabile seno, guido la mano giù per i fianchi? Solo allora intendo il marmo; penso e raffronto, vedo con occhio che sente, sento con mano che vede.
Wolfgang von Goethe, 1788

Tutto ha avuto inizio a Rimini. Avevo ventisette anni quando, una domenica, l’ineluttabile destino ha interrotto le mappe planimetriche di Bob: meraviglioso architetto uscito di senno, si diceva, per amore di una ragazza. Un personaggio che aveva acceso la mia fantasia ed era morto all’improvviso.
Non appena me ne è arrivata notizia, ho avvertito in me l’urgenza di mettere in parola quel suo mondo stravagante e, subito dopo, di rappresentare visivamente – in forma di scatola scenica – quello che fantasticavo fosse il suo universo. L’oggetto, una cassettina ritrovata: sul fondo, ho stampato la topografia di Rimini, alle pareti, brani di disegni tecnici su carta chimica e, ancora, un bicchiere rotto.
A modo mio, ho così voluto ricostruire un oggetto che mi aveva affascinato fin da piccolo: un tabernacolo o, meglio, un reliquiario. Di lì in avanti, tutti gli oggetti che ho costruito hanno sempre recato la traccia viva di un’esistenza pregressa, umana o naturale che fosse. Sarebbe diventata una sorta di liturgia segreta del mio fare arte: innestare negli oggetti un resto della vita che era stata. Facendo in modo che, dal “resto”, prenda vita una nuova vita, che io volevo rappresentare in forma visiva. È il principio a cui mi sono sempre tenuto nel lavoro espositivo e museale.
Per questo, in quel lontano episodio vedo racchiusi in nuce gli elementi essenziali dei tre percorsi che avrei seguito nel mio lavoro. Li sintetizzerei così: la parola e il libro, la scena e lo spazio, la narrazione delle tracce.

Tenevo un diario. Da un certo momento in poi la pagina non mi è più bastata. Ho avvertito il bisogno della terza dimensione: ossia di creare la scena in cui le parole assumessero forma drammaturgica.
La prima volta è andata così. Nel 1998, ho raccolto una dozzina di lavandini in ceramica, disponendoli in uno spazio allestito come una grande stanza da bagno. Quasi fossero isole natanti, ciascun lavandino accoglieva il simbolo del naufragio: avevo infatti depositato al loro interno alcune bottiglie in vetro nelle quali era racchiuso un messaggio. Finché la schiera dei lavandini arrivava alla vasca da bagno, dentro cui galleggiavano altre bottiglie.
È stato, con quel lavoro, come se le mie parole avessero definitivamente abbandonato lo spazio privato del diario per assumere forma materiale e offrirsi allo sguardo. Consentendomi una sorta di personale catarsi. L’installazione aveva per nome “Piccoli naufragi domestici”. A partire da quel momento le parole, che mi accompagneranno sempre, hanno lasciato la pagina per occupare la scena. Fintanto che – ma questa è un’altra storia – ritorneranno a circolare in forma di parole, ma defluendo attraverso una piletta di scolo.
Questi, invece, i passaggi che si sono succeduti portandomi dalla parola al libro. Sempre nel 1998, ho costruito una minuscola opera da tavolo che ho intitolato “Foresta ermetica”: una selva di piccoli libri serrati da un morsetto a farfalla e sostenuti da steli in rame. In quella piccola foresta le parole, sottratte alla vista, introducevano silenziosamente in una nuova dimensione.
Poi, nel 2007, “Foresta antologica” dove, da piccoli che erano, i libri diventano giganteschi volumi fuori misura che ho mandato a popolare il parco della Casa Rossa di Alfredo Panzini, a Bellaria. Costruiti in lamiera zincata, erano sormontati da imbuti, destinati a catturare le esperienze della vita per convogliarle entro la forma di un libro. Di qui la necessità della dismisura – che soltanto la sapienza dello scrittore sa riportare alla giusta misura.
Del resto, un luogo non è altro che una pagina su cui si può scrivere, ma attraverso liturgie diverse: l’espressività con le luci, le sottolineature favorite dagli spazi vuoti, la trama dettata dagli oggetti, le sfumature suggerite dai suoni. Come per i faldoni che bussano per palesare la loro presenza oppure altri, le cui vibrazioni creano cerchi concentrici dentro pozzanghere artificiali. Entrambi creati nel 2013 per un progetto di allestimento nel Palazzo Neroni, a Firenze: “L’archivio preparato”.

Nel corso del tempo mi sono lasciato tentare sempre più spesso dai libri, sia per generare ulteriori immagini sia per disegnarne l’involucro, la sagoma ermetica, senza però la possibilità di accedervi. Forse una dichiarazione di intenti, quasi a dire: il contenuto è troppo prezioso per essere profanato. Oppure volevo conservare l’evidenza fascinosa della stessa impenetrabilità. Garanzia di un lavoro infinito, perpetuo tentativo alla ricerca del varco.
Eppure, nonostante la mia titubanza nel mostrare ciò che disegno e scrivo nei miei quaderni di lavoro, una piccola fenditura sembra essersi dischiusa. Tant’è che ora mi ritrovo a lavorare dall’altra parte, cercando di allestire un libro dall’interno, quasi mi trovassi in un edificio. È evidente che quando parlo di contenuto prezioso, mi riferisco all’utopia della conoscenza, al corteggiamento operato attorno al segreto. Di certo, non al contenuto di questo diario, che racconta di ulteriori involucri, di vestiti cuciti attorno ai contenuti, per continuare la pratica di occuparmi della scatola, del tabernacolo iniziale, dell’edificio, dello spazio che vi è contenuto, ma finalmente con l’alternativa di renderlo accessibile a chiunque.

[…]

I disegni che accompagnano i vari capitoli [di questo libro] sono estratti dai quaderni che ho usato nel corso degli anni per abbozzare i progetti o per elaborare i disegni esecutivi da affidare agli artigiani.
Le lunghe operazioni di selezione e scansione mi hanno condotto a una pagina dei miei taccuini che porta due disegni dei quali, a prima vista, non capivo il significato: un drappo, forse un calzino sostenuto da un telaio in ferro, collegato a una trama di indicazioni: a chi è appartenuto, a quale episodio è legato, fino a dire il tipo di filato, le eventuali riparazioni, il colore, le geometrie.
A più riprese sono trascinato dal flusso descrittivo di oggetti comuni dai quali estrarre piccole storie sull’origine. Alzando lo sguardo dagli appunti vedo galleggiare, appoggiato sullo schedario in legno dentro una vetrina incorniciata, uno scarto di fonderia perforato da un fascio di fili di ferro sottili, a sostenere piccole indicazioni custodite dentro bulbi in vetro. Le scritte provengono dalle pagine di un libro sminuzzato, ma appaiono come indicazioni geografiche.
Lo scarto si vuole presentare, tenta di raccontarmi una storia, sembra un’isola vista dall’alto, ma a ben vedere le indicazioni sono tutt’altro che luoghi geografici. È un’opera dei primordi, dalla quale non ho mai voluto separarmi e ora mi sembra di intravvedervi la sintesi di una stanza di museo. Nonostante questa sia un’opera legata a un percorso personale, senz’altro più istintivo, permettendomi una certa censura del significato o libertà d’espressione, ne rintraccio il gesto dello scavo, della nota a margine, alla ricerca della rotta per la messa in opera.

La mia progettazione di allestimenti per mostre e musei segue a grandi linee questa procedura. Prima di ogni pensiero ho bisogno di conoscere lo spazio/scatola attorno al quale tramare la “trappola” emotiva. A volte, i sopralluoghi diventano soste prolungate, permanenze, ricognizioni quasi residenziali. Stabilire il contatto, disporsi alla percezione dello spazio è come scegliere la carta su cui scrivere. Solitamente preferisco quelle usate, dove è possibile una scrittura sovrapposta, un disegno nel disegno, un allestimento che deve rapportarsi necessariamente con la vita del luogo prima del mio arrivo. Potendo scegliere lo spazio dove allestire, penso a certi muri stinti con fioriture di muffe azzurrognole o ammantati di parietaria, oppure a meravigliose stanze con il soffitto sfondato, per cui la pioggia ha fatto crescere un albero maestoso al centro del pavimento: sarebbe un buon foglio su cui disegnare pochissimo, poiché tutto è già predisposto.
Molto più spesso, invece, il luogo è dato e le tracce da portare in superficie sono più nascoste. A quel punto, passo in rassegna i materiali da esporre. Magari, senza nemmeno conoscere il significato dell’oggetto preso in esame, ne contemplo la fattura, le caratteristiche estetiche, la pelle, la porosità, le piccole deformazioni. Che cosa mi attrae di quel foglio usurato, scarpa, calamaio, radice, altimetro o proiettile?
A proposito di alcuni oggetti trovati in un’area abbandonata di Rimini avevo annotato: “Il grande sonno della corderia non emette suoni ma oggetti, è un campo disseminato di bocche afone, una quantità di oggetti ammutoliti escono dalle fenditure, spuntano dal terreno, emergono dai macchinari. Sono parole divenute materia, indizi cristallizzati, gergo mineralizzato. I detriti – romanzi solidi – sono urla calcificate, canti vetrificati, brusio di cuoio, sospiri di stracci, mormorio di maniglie, sentore di qualcosa che svapora prima delle intuizioni”. […]
Inizio sempre dalla centralità delle cose, poiché il luogo del museo o della mostra è la nostra preziosa scatola magica dove porre l’oggetto fisico, prima di ogni altro concetto astratto. La cattura emozionale deve giungere inaspettata, similmente alle esplorazioni di certi edifici abbandonati, dove la manifestazione improvvisa di un oggetto insignificante mi costringe a immaginare una storia. L’indizio che permette la costruzione di una visione personale.

Poi, attraverso lo studio delle biografie o delle opere, si ottengono le connessioni con oggetti dai quali spesso scaturiscono i primi suggerimenti per la progettazione. Così, per esempio, nel caso di alcune semplici vetrine che ho ironicamente chiamato “visori analogici”, per evidenziare la centralità del documento originale. Le carte scritte a mano, cancellate, corrette, piegate, “vissute dall’autore” creano un’aura non riproducibile artificialmente. Dalla pagina affiora una sorta di paesaggio che va oltre il contenuto: vi si avverte la pressione dei polpastrelli, l’avvallamento impercettibile della carta, un alone, una minuscola macchia, l’assottigliamento per cancellatura, un tassello di carta incollato, la ruggine di una graffetta. Frammenti, indizi da intuire. Tutto contribuisce a irradiare l’unicità e il mistero di un documento, sebbene sia vergato nero su bianco.
Paradossalmente, proprio la trasparenza delle vetrine costruite per rendere esplicita l’opera diviene veicolo di mistero. Questo, a mio avviso, dovrebbe essere il cuore segreto della scatola/museo. Le biografie, le storie e gli oggetti impliciti nella morfologia di un museo dovrebbero condurre a un’altra dimensione narrativa. Una macchina costruita sul ricollocamento dell’oggetto indiziario in modo da consentire al pubblico di ricostruire la propria storia nella storia universale.

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”Mondi di carta”, l’ultimo progetto espositivo realizzato da Claudio Ballestracci, dedicato ai collages dell’intellettuale e letterato forlivese Giuliano Missirini, è visitabile per tutta l’estate nella Casa Rossa di Alfredo Panzini a Bellaria-Igea Marina.

Brano corrente

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