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1 Ottobre 2020 | Racconti d'autore

Dalla borgata deserta

Poesie di Francesco Genitoni tratte dal libro “Archivi e paesaggi” (Riva del Po, Book Editore, 2020)

Vittorio Ferorelli

Nei paesi dell’Appennino che resistono allo spopolamento, ci sono voci che si ostinano a farsi sentire, insieme ai suoni emessi dal vento, dalle campane e dall’acqua di fonte. Tra queste c’è la voce di Francesco Genitoni, scrittore e poeta di Cola, un antico borgo nei pressi di Vetto, sui monti della reggiana Val d’Enza. L’abbiamo registrata nella casa in sasso in cui abita, mentre leggeva alcune poesie tratte dalla raccolta più recente.

STAGIONI

Il fuoco del camino

Una domenica sera
passata intera
a guardare
a fissare
il fuoco da vicino
le braci del camino.

Ti pare di controllarlo intero
ma lui svaga blu bianco giallo rosso nero
tra luce e luci e legna incenerita
calda rossa grigia nera. La vita
cosí è. O vi appare
nel mentre che in una vampata brucia e scompare.

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Canzone per il pero cotogno

“… nell’affollato orto chiassoso
or ora in solitudine seccò”
(rivisitazione da “Pianto antico” di Giosue Carducci)

Il pero cotogno
mai ha avuto bisogno
né di me
né di te.

Tra altre piante comuni piú amate
ben curate raccolte e apprezzate
nella sua solitaria esistenza
è stato mite silenziosa presenza
lui in primavera non potato
d’estate mai una volta annaffiato.
Aveva rudi rami squamosi
sui quali sbocciavano rigogliosi
senza pretesa d’ammirazione i fiori
bianchi e rossi di raffinati colori
e delicato il verdino delle foglie
setose che sguardo distratto non coglie.
Puntuale in autunno ha offerto a tutti
i suoi dolci lanuginosi frutti
dalle curve sensuali profumati
da noi poco o niente utilizzati
per pigrizia e incompetenza nostra
di cui abbiamo fatto brutta mostra.

Il pero cotogno
mai ha avuto bisogno
né di me
né di te.

Prometto che andrò spesso a ragionare
dov’è vissuto e morto a ricordare
ciò che all’orto tutto e a noi ha donato
finché solitario se n’è andato
cosí come sempre solo è stato
con un costume non piú praticato.
Lieta mite non gridata dai tetti
che non soffre dei complimenti non detti
che non cura accuse di inutilità
dileggio incomprensioni crudeltà
dev’esser la lezione della bellezza.
Aspetta dal tempo un rimborso in dolcezza
o almeno una postuma comprensione.
Se no di stile ci darà altra lezione.

Il pero cotogno
mai ha avuto bisogno
né di me
né di te.

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PAESI SUOI

I guerrieri macedoni

Io li ho visti i guerrieri macedoni.
Giovani magri senza un filo di grasso
facce fiere e a loro modo aperte
con sguardo lucido e professionale
mentre ti parlano di motoseghe
di boschi di prezzi e contratti fatti.

«In otto centotrenta in un giorno»
e son metri cubi di querce e di faggi
tagliati spostati ammucchiati
«smacchiati» dicono loro e senza ironia.
Intaccano i denti nell’italiano
ma non le aguzze lame nei legni.

«Lo smacchiano davvero il bosco questi
qua. Non ci lasciano matrocinio*
tagliano giú tutto» lamenta mia
madre che crede di saperla lunga
sul taglio del bosco e vecchie regole.

«Dove passano…» conferma l’uomo che
vende gli attrezzi e hanno lavorato per
lui «… lavorare lavorano ma poi
soldi subito. E vanno all’incasso
in gruppo coi pennati attaccati al
sedere mani e muscoli in bella vista.
Se acquistano invece chiedono tempo…
ma nel bosco ci sanno fare eccome
con motoseghe scuri e carri.» «Svelti
ma verso i quarant’anni» dice il figlio
del venditore «saranno rotti
da buttare via legna tarlata e
buona da niente come quella
segata con la luna sbagliata.
Mah gli piacerà cosí. Bosco legna e
vivere a squadre in vecchie case tra i
monti del crinale d’Appennino.»

«Chi l’avrebbe mai detto i nostri boschi
finiti in mano a questa gente!» dice
la gente che non ha piú memoria
di celti longobardi bizantini
tedeschi e altri unni passati di qua.

Chissà se gli antenati macedoni
hanno visto i Romani se le hanno
prese o date se eran servi o padroni.

* Matrocinio: le piante non tagliate, seguendo precisi parametri, per permettere al bosco di rigenerarsi al meglio in tempi piú brevi.

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DALLA BORGATA DESERTA

Ode a la frîna

Peul êsre perché ad làma pu’ murtâl
t’é la figûra che sêmpre a me te frîna
quand at lavûr t’am fê pensâr
a šgûra corda calscîna?

I schêrs. Rubiglia da leteratûra.
Bèla tajênta curva šberlušénta
stîla musicale larga dûra
tè t’é una bèla balerina balanta

in t’al mân ad chi l’è bûn.
L’è la mancânsa ‘d ritmo e d’elegânsa
cl’at fà gnîr na machina catîva
búna da môrti pr’al pajâr.

Mè it vèd ad mi pà ‘na balerina.
Davanti av s’arèv la pista d’êrba
a s’inchina a’s’giaca casca e bàt al mân
ânch l’erba mèdga alta e superba.

In gh’èma mía la mšûra di lavûr
finâl. Fnîda. Pr’ogni cósa al dipènd.
Da quel avšîn. An basta mía dir «la röša»
per savêr si al discúrs al pîga

vêrs al bel fiûr o al bòch ch’al fûra.
Lavûr ad psicologia. Pûnt ad vísta. Destîn.
Frîna per me ‘na grân balerina
tè t’é. Lavûr ad víta e mía ad môrt.

T’é semper là cat bàl cu mi’ pà.
Indrê. Avanti. Sûr al brött e al bèl.
C’at ríd. S’a-t vîn i dênt avanti!
a arbàtre la làma al martèl.

Ode alla falce

Forse perché di piú fatale lama
tu sei immago sempre a me falce
il vederti all’opera richiama
effetto di mannaia corda calce?

Scherzo. Cascami di letteratura.
Ben affilata curva luccicante
sottile musicale larga dura
fascinosa ballerina danzante

diventi nelle mani di un capace.
È la mancanza di ritmo e stile
che ti riduce a macchina rapace
creatrice di morti da fienile.

Ti vedo ballare di mio padre dama.
Davanti a voi si apre la platea d’erba
si inchina prostra abbatte infine acclama
perfino l’alta medica superba.

Non è in noi il senso delle cose
ultimo. Finito. Tutto dipende.
Dal vicino. Non basta dire «rose»
per stabilire se il discorso piega

verso il bel fiore o la pungente spina.
Psicologia. Punti di vista. Sorte.
Falce per me provetta ballerina
sei. Metafora di vita e non di morte.

Sei sempre là che con mio padre danzi.
Indietro. Avanti. Sopra il brutto e il bello.
Ridente. Quando sdentata avanti!
a ritemprare la lama il martello.

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Ad sêra pr’al paêš desèrt

Dop mangiâ i’ho caminâ pr’al
paêš desèrt. I n’ú mía incuntrâ
un’ànma vîva. Gnan un gàt
in mèš al cà ad sàs o drê la via.
Agli anme môrte s’i vöi túte
i gl’arcàt. A tacâr da la Gèma scûra
pàlida paurûsa cûn la su vèsta nigra
nigra e la crûna in mèš ai dî
e po’ la Gîgia andâda l’âter dí
e in mèš Tàlia magre Temante
cûn i šbàfi l’Èlia cl’an parla mai
l’Adalgisa Prati… à n’ manca insûn.

L’Eva e Jacmèt i’en bèli andâ a lèt
ânch s’in gh’ân mía pu’ in tla stàla
al vàchi ch’al fa’n star sú prèst
a la matîna. Chí ûrmai a’gl’en sparîdi
e stàli e vàchi. Tra un pô a n’armagnrâ
gnân un pút o una vèdva d’incö.

L’Irma la và a lèt sénsa stricâr
la fnèstra d’la cušîna. I camín
pr’arivâr davanti ai vêdre avèrt
prima che l’umditâ la scancèla
i alšêr sígn ad lûš lasâ
da la televišiûn apiàda e dal riflès
sò e d’la Mavra ch’al š-iöghi
a bríscula. Da perlûr. Túti al sèri.
Dop mangiâ. In silénsi. Sèrie.
Dríte cúma d’al piòpi. Cûn i ò-c
in šíma al cârti fís. Mía sûl al figûri
al vali di arcôrd. Ânch al flènghi.

Di sera per la borgata deserta

Dopo cena ho camminato per la
borgata deserta. Non ho incontrato
un’anima viva. Neanche un gatto
tra le case di sasso o sulla strada.
Quelle morte se voglio tutte le
rincontro. Dalla Gemma severa
pallida paurosa con il vestito
nero nero e corona tra le dita
alla Gigia partita l’altro giorno.
E in mezzo il magro Talia il baffuto
Temante la silenziosa Élia
l’Adalgisa Prati … Nessuno manca.

L’Eva e Jacme sono già andati a letto
anche se nella stalla non hanno piú
le mucche che fanno alzare presto
la mattina. Qua ormai sono sparite
e stalle e mucche. Tra un po’ non resterà
nemmeno un putto o una vedova di oggi.

La Irma va a letto senza chiudere
la finestra di cucina. Mi affretto
per passare davanti ai vetri aperti
prima che l’umidità cancelli
i lievi segni luminosi impressi
dalla tivú accesa e dal riflesso
di lei e della Mavra che giocano
a briscola. Da sole. Ogni sera.
Dopo cena. Silenziose. Serie.
Diritte come pioppi. Ad occhi sulle
carte fissi. Non solo le figure
valgono ricordi. Anche le flenghe.
*

* “Figure” e “flenghe”: terminologia dialettale del gioco delle carte. Le “figure” sono le carte “vestite”: fante, cavallo, re; le “flenghe” o “lisci” quelle che, al gioco della briscola, non valgono neanche un punto: i due, i quattro, i cinque, i sei e i sette.

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Mattina di dicembre

In questa prima mattina di dicembre
in una nebbia diradata che appanna
a bolle argentee e dà nuovo spessore a
monti colline prati boschi ai sassi
ai bassi giri d’acqua del torrente
a querce d’ottone arrampicate d’edera
case isolate e borghi a case vuote
e nulla toglie anzi dà dona luce
che ti svela squarci mai notati
in un silenzio stupito d’ogni cosa
andare
          immerso corpo occhi cuore
assorbire bere diventare
ogni monte collina pianta prato
bosco strada casa isolata borghi
finestre chiuse e via via risfogliare
rispolverare uomini donne e loro
bestie paesi campi e rive metati*
case borgate gonfie di persone e
andare
          lento e svelto a ritrovare parole
storie lavoro i minimi frammenti
scritti con nebbia narrati da silenzi e
andare
          col sole a raggi larghi or ora apparso
filtrato tra le bolle della nebbia
a tranquilla eccitata mente andare
ricercare
          in naturali pazienti infrequentati
ma non per questo meno vivi e vivaci
          archivi.

13 dicembre 2018

* Metati: rustici edifici, perlopiú in mezzo ai boschi, in cui su graticci, a moderato calore, si essiccavano le castagne. A operazione conclusa, queste venivano mondate della buccia e macinate per ottenerne farina. Le castagne sono state, fino a non molti decenni fa, alimento fondamentale per la sopravvivenza delle piú povere popolazioni d’Appennino.

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Na vaghèsa dimúndi precîsa

Un mûnt ‘na piòpa alta ‘n’uciâda i d-gévne
e an ghéra bsúgna né ad centimétre e gnân
ad mètre. Bastéva cl’espresiûn vaga
mía precîsa per dâr na msûra precîsa
in t’la sú aprusimasiûn. In saevi brîsa
cúsa l’è un ossimoro – piên d’angúta
pr’esêmpi – e gnân ‘na metafora
o quèl ch’i vrî ma listès i vdèvne
luntân e dimúndi pu’ precîs ch’incö.
Al têmp d’amsûre piêne ad milimètre.

Una vaghezza molto precisa

Un monte un pioppo alto un’occhiata dicevano
e non c’era bisogno né di centimetri né
di metri. Bastava quell’espressione vaga
non precisa per indicare una misura precisa
nella sua approssimazione. Non sapevano
cos’è un ossimoro –
pieno di nulla
per esempio – e neanche una metafora
o quel che volete ma lo stesso vedevano
lontano e molto piú preciso di oggi.
L’epoca delle misurazioni piene di millimetri.

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Sasâş

I v’ho cgnusû e lèt tú-c quânt sasâş pigàş
dûr da furâr cúma da capîr
surnà-c túnd squadrâ bislúng e stôrt
rvinâ busî fûrb e fadàbi i v’ho studiâ
spiâ ad dí e ad nòta fat dmànde e ascultâ
per d’í àn per túta la mi’ víta ma

vuètre brút bastârd sêmpre síţ
mút cúma dal tòmbi ‘d sàs mai
i m’î vrû cuntâr quèl ad túti cal
storie bèli e brúti tristi e alêgri
dûlsi e dûre i canti i pianti i gemiti
túti ch’al víti e al môrt ch’î víst pasâr
e ascultâ e i so ch’i arcurdê bên
cúma s’a fúsa iêr ch’al glién sucèsi

l’única cusîna ch’a v’è scapâ l’è cúl
GF 1777 sculpî in t’la cantunâda là
perchè suo malgrado i gh’l’an piciâ adòs
chè chisà chî l’èra GF e perchè cl’àn lí

beh almeno i spér ch’i tgnîrî al bèch
a-stríc ânch su túti al tânti cujunâdi
che mè iû fàt e i farò brút sasâş
pigàş surnà-c squadrâ stôrt e rutúnd
tú-c quant umertûs bastârd ch’in sî âtre
ch’i-n mî mai vrû cuntâr un sàs d’angúta
d’la víta d’la gént d’la mi burgâda.

Le parole pigàş, fadàbi e surnà-c erano, e sono ancora, usate in senso metaforico, con connotazioni negative:
pigàş: picchio; per dire minchione, persona che pencola di qua e di là, come il picchio in volo;
fadàbi: succiacapre, uccello curioso, con un volo a sbalzi che sembra disarticolato; per stimolare chi si dimostri non svelto di testa;
surnà-c: moccioso; per monello che risponde male, arrogante.

Sassacci

Vi ho conosciuti e letti tutti quanti sassacci pencolanti
duri da forare come da capire
arroganti tondi squadrati bislunghi e storti
diritti forati furbi e minchioni vi ho studiati
spiati di giorno e di notte fatto domande e ascoltato
per degli anni per tutta la mia vita ma

voialtri bastardi sempre zitti
muti come tombe di sasso mai
mi avete voluto raccontare qualcosa di tutte quelle
storie belle e brutte tristi e allegre
dolci e dure i canti i pianti i gemiti
tutte quelle vite e le morti che avete visto passare
e ascoltato e io so che ricordate bene
come se fosse ieri che sono successe

l’unica cosetta che vi è scappata è quel
GF 1777 scolpito su quella cantonata là
perché ce l’hanno picchiato addosso suo malgrado
che chissà chi era GF e perché c’è quell’anno lí

beh almeno io spero che terrete il becco
chiuso anche su tutte le coglionate
che ho fatto io e che farò brutti sassacci
pencolanti maleducati squadrati storti e rotondi
tutti quanti omertosi bastardi che non siete altro
che non avete mai voluto raccontarmi un sasso di niente
della vita della gente della mia borgata.

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IN CAMPANA

L’ora di Cola

È ora l’ora di Cola.
È oro che cola
le ultime gocce
dall’antica campana.

Argentina precisa leggera
quando il tempo è leggero.
Sfocata se suona nel vento.
Metallicomuta nei giorni di pioggia.
Ovattata dalle bende di neve.
Tiene lontane a colpi secchi di suono
piogge violente e la grandine estiva.
Dai tempi per voto suonata a distesa
l’intera nottata del santo Giovanni.

Ne ha suonate d’ogni metallo e colore.
Vere e inventate. Di gioia e dolore.

Di oggi le sue ultime gocce. Ma solo
per chi confonde il niente col tutto
la propria goccia col mare infinito.

Ci sarà ora e sempre qualunque sarà
c’è sempre ci sarà l’ora di Cola.
Sarà sempre oro di bronzo che cola
fino all’ultima goccia dalla campana
cornucopia del tempo che suona.
Che cambia il suo suono. Che suonerà
anche senza anche dopo di noi suonatori
suonati meno di un’eco di un’eco
di suono della vecchia campana.

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Musiche
Sonny Boy Williamson – “Bye Bye Bird” (Reelin’ in the Years Archives)
Neil Young – “Dead Man”
Neil Young – “Dead Man” (Edoardo Legnaro Cover)

Brano corrente

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