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19 Novembre 2009 | Racconti d'autore

Emigranti Esprèss

di Mario Perrotta, Fandango Libri, 2008.
Seconda puntata.

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri

19 novembre 2009

Nel 1980 Mario Perrotta ha dieci anni e da solo, una volta al mese, va in treno da Lecce a Milano per incontrare suo padre che lavora lì. In ogni viaggio viene affidato dalla madre a una famiglia di emigranti scelta sul momento. Brindisi, Bari, Pescara, Ancona, Rimini, Bologna, Parma, Milano; ma anche Zurigo, Stoccarda, Bruxelles: ogni fermata corrisponde a un capitolo del libro e ritrae un’Italia sopravvissuta a un’epopea di umani affanni. La curiosità di Mario bambino alimenta la sua fantasia insieme ai racconti dei viaggiatori. Scorrono davanti ai suoi occhi le odissee degli italiani costretti a lasciare la terra d’origine nella speranza di un futuro migliore.
Attore, autore e regista, Mario Perrotta, nato a Lecce, si è laureato in filosofia a Bologna, dove ha fondato la compagnia del Teatro dell’Argine. Fra i suoi spettacoli, segnaliamo
Italiani cìncali – Parte prima: minatori in Belgio (2003), che è stato presentato dalla Consulta degli emiliano-romagnoli nel mondo nel 2004 alle associazioni emiliano-romagnole di Bruxelles, Liegi e Genk; La turnàta – Italiani cìncali parte seconda (2005); Odissea (2007).
Perrotta lavora in teatro, radio e televisione.

Emigranti Esprèss 

di Mario Perrotta 

Fermata VIII – Milano

Minchia guarda! Guarda che fiume, ah!? È immenso: mo’ comincia e non sai quando finisce! Bah… E poi dici che Dio non esiste!

Queste erano le parole preferite di mia nonna Lucrezia di fronte a qualsiasi forma di vita animale, vegetale, acquatica e aeriforme: e poi dici ca Diu non esiste! Per esempio, che so, spuntava nna pianta nel giardino e lei: “Uh, guarda, nna pian­ta… e poi dici ca Diu non esiste!”. Oppure, che ti devo dire, la gatta partoriva: “Uh, ha partorito… e poi dici ca Diu non esiste!”. La frutta nel frigo andava a male: “Uh, è andata a male! E poi dici ca Díu non esiste!”. Ma quello che la ispirava di più era la televisione. Qualunque cosa apparisse sullo scher­mo, per lei già era un miracolo che potesse stare dentro quel vetro a due dimensioni – animali, fiumi, montagne, paesi lon­tani, popoli strani di colori diversi – qualunque cosa fosse: “Uh, guarda! E poi dici ca Diu non esiste!”. Una volta lo disse pure davanti all’ennesimo governo Andreotti… Comunquesia, mia nonna di fronte a questo fiume avrebbe sicuramente pro­clamata l’esistenza di Dio.

E sì, perché ‘sto fiume è veramente tanto, che finalmente la nebbia del primo mattino si è aperta poco poco e qualcosa si vede, e ci ritroviamo all’improvviso sopra a questo popò di fiume… Che proprio così si chiama: Po. Anche se è tanto. Un Po tanto!

E il motivo che è tanto, io lo so e mo’ te lo spiego.

II Po serve da confine, che infatti si trova tra l’Emiliaeroma­gna e il resto del nord-est produttivo. Ma esso Po non è solo un confine geografico, ma proprio di popolo. Ed è per questo che è così largo, perché segna la distanza tra due mondi – due stili di vita – e secondo me, ce l’hanno messo quelli del nord­est produttivo per chiarire al viaggiatore questa distanza.

Mi spiego meglio: di solito uno, durante la sua esistenza sulla faccia di questa terra, perché lavora? Te la sei mai fatta questa domanda? La risposta è: per fare tutte le cose che vuole fare nella sua vita. Mangiare, prima di tutto. Dormire ripa­rato. Sposarsi. Viaggiare. Farsi nna foto ricordo sotto il Colosseo. Uscire il cane nel parco. Ballare nna pizzica. Comprarsi le noccioline alle giostre… Insomma, detto sintetico: lavora per vivere.

Ora, tutte le cose che ti ho elencato, però, sono cose sem­plici – come dire? – che non fanno la differenza, che tanto mangiare dobbiamo mangiare tutti, dormire anche, uscire il cane tutte le sere alla fine ti rompi pure e le noccioline, a ben guardare, fanno ingrassare. Insomma: robe futili, semplici e a volte addirittura inutili. Ci sono cose, invece, che la differenza la fanno; cose più utili, più produttive, tipo: mettere in piedi una fabbrica, poi due, tre magari, e in quella fabbrica produrre, – che so? – viti e bulloni. Viti e bulloni che vendi prima ai negozi del circondario, poi della regione, dell’Italia e infine di tutto il mondo, e con i soldi che fai ci costruisci una casa, poi due, tre, dieci magari, e quelle case mica te le tieni tutte che niente ci fai. Te le vendi quelle case! E ne compri altre, magari da rimettere a posto, e allora metti su pure una squadra di muratori restauratori, nn’impresa, un consorzio edilizio. E le case vecchie – fatte nuove nuove – le rivendi a tre volte di più, e altre ne compri… E compra-vendi-produci, compra-vendi-produci, tieni tanti soldi che, adesso sì, puoi fare tutte le cose più belle della vita e non rinunciare mai a niente; adesso sì che la domanda “perché uno lavora?” trova un senso. Che, dico, non è che uno può “lavorare per vivere” e basta, no! La risposta vera è: uno lavora per vivere bene! Questa è la differenza di popolo che dicevo. Questo è il con­fine segnato dal fiume Po: quelli che “lavorano per vivere”, che stanno sotto, e quelli che “lavorano per vivere bene”, che stan­no sopra il Po. Nel nord-est produttivo, insomma, si produ­cono i soldi necessari per fare tutte le cose più belle della vita.

Il guaio è, però, che per produrre tutti questi soldi devi lavorare molto, anzi moltissimo – che se no come fai a stare dietro alla fabbrica, i bulloni e le viti, le case, il consorzio edi­lizio e le altre mille cose che tieni da fare? – Devi lavorare tal­mente tanto che, alla fine, il tempo della giornata è tutto Buca­to dal lavoro – che del resto comunque ‘sti soldi bisogna pro­durli, che altrimenti che si chiama a fare nord-est produttivo? E lavora-produci-fai soldi, lavora-produci-fai soldi, finisce che continui a rimandare le cose bellissime che puoi fare nella vita e ti ritrovi a vivere… per lavorare!

E il confine, così, si è già trasformato: al di sotto del Po ci stanno quelli che “lavorano per vivere” e al di sopra del Po quelli che “vivono per lavorare”. A dire il vero, ci sono anche altri due sottogruppi di estremisti sparsi a macchia di leopar­do sul territorio nazionale: quelli che “lavorano per lavorare” e quelli che “vivono per vivere”, ma diciamo che sono casi cli­nici, statisticamente irrilevanti.

E infine, tirando le somme di questo ragionamento voluta­mente fazioso, la differenza è che: se “lavori per vivere”, ti resta il tempo di fare le cose che vuoi fare nella vita. Certo, non tutte, perché magari tieni pochi denari, però: uscire il cane, ballare nna pizzica e comprarsi noccioline alle giostre, sì che le puoi fare. Se, invece, “vivi per lavorare”, tieni sì un sacco di denari per fare veramente tutte le cose più belle del mondo, ma tieni così poco tempo libero che non riesci manco a man­giarti una nocciolina in santa pace, figuriamoci ballare nna pizzica! Hai capito che ragionamento?! E poi dici ca Diu non esiste!

– Ahia!

– ‘Spetta, ‘spetta! Con calma. Giralo, giralo!

– Aaaah! Le mamme ‘oste!

– Sali la gamba, sali! Tu metti la mano sotto e io tiro, forza! – Aaaaah!

– Non così, dall’altra parte…

Appena finito lo stupore per il grande fiume che ci siamo lasciati alle spalle, comincia nel corridoio un casino di urla “tiralo! salilo! prendilo da sotto!”, che tutti nello scomparto abbiamo pensato a un qualche bagaglio molto pesante affrontato collettivamente da quattro, cinque persone. Infatti, visto l’arrivo prossimo a Milano, mezzo treno si è mobilitato per sgomberare gli scomparti e prepararsi alla discesa, affollando i corridoi di pacchi, pacchetti, valigie e cascioni tra i quali sbu­cano mani, piedi, busti e facce di proprietà delle persone inca­strate nel mezzo. Davanti al nostro scomparto ci è capitato in sorte lu culasciòne di una signora stampato, suo malgrado, sopra il vetro della porta. E, nonostante la porta chiusa, da fuori continuano ad arrivare quelle grida che tutti ci chiedia­mo quanto minchia pesa ‘sto bagaglio!

– Signora Ada, esco un attimo a guardare.

– Sì, ma non ti allontanare n’altra volta Mario, eh? Mi rac­comando!!

Raccomandazione assolutamente inutile che, pure volendo, dove vado con questo incastro di corpi e valigie che c’è nel corridoio…

– E chiudi bene la porta, sai Mario? Che ‘sti urli me sta’ stò­nanu!

– Va bene signora Ada…

Uscito fuori con qualche difficoltà, chiudo la porta e stam­po anch’io il mio deretano sul vetro dello scomparto, restan­do sospeso tra il vetro stesso, una valigia e la signora col cula­scione. E da questa posizione obbligata, guardando verso la fine del corridoio, riesco a vedere soltanto delle braccia che si spingono verso l’alto, che trafficano sul portabagagli del cor­ridoio, sempre gridando “giralo, spostalo, ora scendilo… no, salilo, salilo!” mentre tutti i presenti cominciano pure loro a dare consigli di ogni genere sul da farsi.

– Signora, mi scusi, che io non ci vedo da qui sotto, ma che succede?

– Stanno scastrando a uno! – mi dice la signora.

Ah, ecco, mo’ ho capito che stanno facendo! E sì, questa è cosa che succede spesso. Te li ricordi gli zebrati? Te li ho rac­contati alla fermata di Pescara… Quelli che dormono sul por­tabagagli del corridoio, quello fatto a sbarre!? Quelli che la mattina li riconosci perché girano per il treno con la faccia zebrata!?! Ecco, quelli lì capita spesso che, ribaltandosi nel sonno su quelle sbarre, ci si incastrano proprio. Chi con un braccio, chi cu nnu pete, colle ‘recchie, qualcuno pure con i denti. E allora la mattina ci vuole la squadra di soccorso per scastrarlo che altrimenti quello rimane abbandonato sul portabagagli sino al capolinea del treno.

A proposito di capolinea, tra poco si arriva a Milano e pure io devo scendere, invece sto ancora qua a raccontarti storie e storielle, e non solo le racconto a te, ma le racconto pure alla signora compagna di culo stampato sul vetro, che pure lei, mi dice, deve scendere a Milano e questa è la sua prima volta nella capitale produttiva d’Italia. Sta andando a raggiungere il mari­to che, finalmente, integrato che si è tra i menechìni dopo un decennio di lavoro, ha deciso di portarsela con sé a Milano, che questo è il nuovo inondo e qui deve essere il futuro loro e dei loro figli. Le ha telefonato e le ha detto: “Uè, Carmela! Ccògghi i fièrri e vien su, che adess’ mi ghe l’ho un sputazzo di casa. Adess’ mi sun diventat’ manechìno ddavèru. Vien su, che ti faccio manechìna anche te, Carmela!”. E lei s’è com­mossa a sentirlo parlare così moderno, non ci ha pensato due volte, ha chiuso il telefono ed è partita col primo treno. E adesso siamo qui tutti e due in trepidazione per questo arrivo in stazione: lei che l’aspetta il marito e io che mi aspetta mio padre. Ormai il viaggio è finito e non è più tempo di raccon­tare storie e fantasie a questa povera gente, che di buscìe, in questo viaggio, gliene ho raccontate anche troppe. Adesso è tempo di prepararmi:

– Allora io vado. La saluto, signora. E mi saluti a suo marito.

– Va bene, va bene te lo saluto. E anche tu, salutami a tuo padre… E digli che si ricorda di noi emigranti ora che lo fanno ministro!

– Va bene signora…

E me ne rientro nello scomparto.

Lo so, lo so, sono stato carogna, ma non è colpa mia, è più forte di me! Non dovevo dirla quest’ultima buscìa, che ora mi sento pure in colpa e questo peggiora il mio stato d’animo prima d’affrontare il mostro. Sì, perché neanche il treno comincia a rallentare, che già dal finestrino si vede in lonta­nanza la bocca enorme di balena della stazione di Milano. E più ci avviciniamo più quel mammifero di ferro si fa spaven­toso, che di bocche ne tiene tre e tutte spalancate, come a dire che sei senza scampo: dove giri giri, sempre lì dentro devi fini­re. Il treno, tutte le volte a questo punto, mi pare che si azzit­ta. Quasi che tutti sentano addosso quella condanna, quel destino da Pinocchi che viaggiano dritti verso la pancia della balena, anche se l’unico che ha detto buscìe su questo treno sono io.

E infatti io peggio ancora mi sento, come la mela marcia che se li porta tutti all’inferno ‘sti poveri cristi. E allo­ra mi piovono addosso tutte le accuse del mondo e sento di meritare quella fine, sento di meritare ogni castigo, anche il peggiore, quello che ho temuto per tutto il tempo del viaggio, quello che ho fuggito cercando di distrarmi in tutti i modi, ma sempre attaccato addosso me lo sono ritrovato: entrare nelle viscere grigie del mostro e non trovarci a Geppetto, non trovare a mio padre di sotto al finestrino. Che proprio adesso stiamo entrando nella zona d’ombra della bocca centrale e il pietrisco che separa un binario dall’altro si trasforma pian piano in terra battuta e poi in cemento e si rialza lentamente quel cemento, per farsi ricoprire dalle prime mattonelle ed è lì che comincia il marciapiede del binario, ed è lì che, ogni volta, comincia il calvario di volti, di facce veloci, che scorrono via inesorabili: una tempesta d’immagini nello schermo televiso­re di quel finestrino. E io non c’ho il telecomando per fer­marle le immagini e tutte le devo guardare – tutte! – con l’oc­chi che viaggiano a scheggia, aspettando di posarsi su qualco­sa di conosciuto, e più passano i metri più batte il cuore, e più il treno rallenta più le immagini si fanno distinte, si lasciano guardare tanto che mi pare di vederlo a momenti – ma è soltanto apparenza – una barba, un saluto, uno sguardo d’affet­to lanciato chissà a chi ma non a me, che me ne resto in atte­sa, orfano di sorrisi, mentre ‘sto vigliacco di treno rallenta ancora. E sempre meno sono le facce che mi restano da guar­dare e ogni volta lo penso, ogni volta mi dico che questa è la volta buona che non lo vedo, non vedo quel viso di uomo che, fingendo di stare tranquillo, mi cerca anche lui con la fregola in corpo. Ed è una gara a chi prima si riconosce, a chi prima stabilisce il contatto, che l’altro lo sente e si gira. E in quel­l’attimo – avvenuto l’aggancio – vedo quegli occhi da uomo che si sciolgono, ridono; perché ride con gli occhi mio padre, che non vuole darla a vedere la gioia altrimenti con essa pure la paura mi deve mostrare, il tremore di tutta una notte pas­sata anche lui senza sonno, che se il treno si rompe, oppure deraglia o succede qualcosa qualunque di notte e Mario non sa cosa fare?

Ogni volta mi dico: ricorda, ricordati l’ultima volta che l’hai visto così, perché oggi, invece, siamo quasi arri­vati e non c’è; ora tu prendi borsa e zainetto, scendi dal treno senza fotterti dal panico, metti mano alla borsetta appesa al collo, prendi i gettoni e telefoni a qualcuno… Che una volta è successo davvero e io li ho presi i gettoni, ma mentre che andavo sul marciapiede del binario pensavo: e se adesso lui arriva e non mi trova? E se mentre lui mi cerca di qua sul bina­rio io sono chissàddove a telefonare che tanto non lo trovo né a casa né all’ufficio che lui pure è qua ma non ci siamo incontrati? E se non arrivo a mettere i gettoni perché ho solo dieci anni e sono ancora basso? E allora mi sono fermato su quel binario non sapendo che fare, mentre la folla di gente mi scor­reva di fianco svuotando pian piano il marciapiede e mi hanno lasciato lì, con la borsa e lo zainetto in mano e due lacrime silenziose sopra alle guance, di fronte all’immensità di quel ventre d’animale, paralizzato all’idea di rimanere lì per sempre. Poi però l’ho visto da lontano, arrivare di corsa, affan­nato di ansia… e le lacrime e i pianti neanche te li racconto.

Ma stavolta, invece, il treno non si è ancora fermato e tutto di botto mando ‘fanculo questi bastardi pensieri, perché lo vedo stavolta! Lo vedo durante l’ultimo raglio del treno che ci sbalza tutti in avanti, pacchi, valigie e cascioni compresi. E sarà questo movimento improvviso di corpi e valigie, sarà che la gioia mi fa ‘mmiscàre le cose dentro e fuori dal treno, ma mi pare che pure mio padre tiene per mano una valigia, ma sicuro sono io che stravedo.

Intanto che sfollano tutti quelli davanti a me nel corridoio, approfitto per salutare la signora Ada e famiglia, che proseguono il viaggio fino a Zurigo e, poveretti, gli tocca di stare anco­ra mezza giornata su questo treno. In modo particolare saluto a Rosa che, adesso sì, è il momento che non la vedrò più e allo­ra lo trovo il coraggio di abbracciarla, finalmente! Ma proprio nel mentre che sto per affondare la testa in quel bendiddio, si sentono botti sul vetro e questo è mio padre che mi fa segno di abbassare il finestrino, ma io non ci arrivo. Allora lui, sorri­dendo, con un segno di occhi mi chiede di Rosa, di farla avvi­cinare per favore e che lo abbassasse lei il finestrino, se non le è per comando. Tutte queste riverenze le dice appunto con gli occhi, ma io le capisco lo stesso, che gli occhi di uno che fa il galantuomo con una bella carusa li capisce pure uno scemo.

Rosa, che scema non è, capisce anche lei la richiesta fin­gendo di non accorgersi delle riverenze e viene ad abbassare il finestrino:

– Ehi, giannizzeru, come stai?

– Bene papà.

– Prendi questa, dai, che andiamo a Stoccarda!

E mi passa veramente una valigia! E mi dice di aspettare lì sul treno che adesso sale pure lui e tiriamo dritti fino a Stoccarda a casa dello zio. Miiiii, che sorpresa! Che io mai ci ero stato sul treno da Milano in avanti! Sempre lì mi ero fermato e invece adesso me ne andavo sino al capolinea insieme a mio padre, sino a Stoccarda appunto, che proprio lì mio padre teneva un fratello professore che insegnava all’Università!

Hai visto dunque come succedono le cose?! Che tu ti pensa­vi che a questo punto del racconto finiva tutto, vero? O quan­to meno ti se’ pensato che finiva il viaggio sul treno e da ora in poi ti raccontavo – che so? – di Bergamo; oppure di come era composta la casa di mio padre; di quante volte andavo al bagno; di come mi scaccolavo dinanzi allo specchio e invece no! Tengo ancora un sacco di cose da raccontarti che il viaggio continua! Miii che sopresa! E poi dici ca Diu non esiste!

 

Brano corrente

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