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7 Ottobre 2010 | Racconti d'autore

Gli scrittori inutili

di Ermanno Cavazzoni, Guanda Editore, Parma, 2010 (terza puntata)

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

7 ottobre 2010

Come si diventa scrittori inutili? Lo scrive in un divertente manuale di scrittura inutile, appunto, Ermanno Cavazzoni, reggiano nato nel 1947 e residente a Bologna, dove insegna all’Università, autore apprezzato per la sua comicità (dal suo Il poema dei lunatici Fellini ha tratto il suo ultimo film, La voce della luna) che, in questo caso, aiuta a far perdere peso e credibilità all’incredibile massa di letteratura o pseudo tale, che la nostra società produce. Nel libro si trovano 49 ritratti di scrittori inutili che si propongono come esempio per chi voglia diventare a sua volta uno scrittore inutile. A completamento, sette lezioni di sette docenti di un’ideale scuola di scrittura: sette perché tante sono le materie da insegnare, come i vizi capitali.

45. Liberi e asserviti

C’era uno scrittore teorico della libertà di scrittura, nemico acerrimo degli scrittori asserviti; e nemico di ogni forma di scuola. Perciò aveva raccolto gli scrit­tori liberi e tutti insieme sostenevano la libertà di scrittura. Quando costoro per un impulso improvviso scrivevano, avevano come argomento la libertà di scrittura, e la sostenevano citando ad esempio lo scrit­tore teorico, il quale non si era mai piegato a nessuno. Anche gli allievi non si erano mai piegati a nessuno; ma non risulta che nessuno li avesse voluti piegare, e anche il maestro non l’aveva mai voluto piegare nes­suno, né alcuno aveva mai cercato di togliergli la li­bertà. Eppure solo l’idea li faceva inferocire, tanto che venivano ogni tanto invitati ai dibattiti pubblici e te­levisivi dove i loro furori facevano effetto. E venivano contrapposti generalmente ad altri scrittori più paci­fisti, che però facevano la parte degli scrittori venduti, anche se da vendere avevano poco e in ogni caso compratori non se ne erano mai intravvisti, né com­pratori supposti, ipotetici, o compratori a venire.

Gli scrittori della libertà erano dodici, e dodici i pacifisti; ventiquattro in tutto, compresi i due caporio­ni. Un tempo erano stati molti di più da entrambe le parti, ma la vita dello scrittore è difficile, sia esso per la libertà o per il pacifismo, essendo molti gli stenti, i problemi economici, patendo essi spesso la fame, anche al giorno d’oggi, una fame che li assottiglia e perdura acerrima, poiché la libertà è il contrario del capitalismo, e il pacifismo non ha rendita sul mercato azionario.

Dunque, ormai a ranghi ridotti, i ventiquattro scrittori furono invitati a una cena-dibattito, in cui cioè dovevano cenare e dibattere, mentre il pubblico ascoltava e cenava. Tale era l’uso da poco invalso nella cultura, di unire l’intelligibile alla gastronomia; cosa che da entrambe le parti fu assai benaccetta. Così la serata ebbe inizio; ma gli scrittori della libertà rifiutarono di stare composti e presero la parola subito, prima dell’antipasto, accusando gli avversari di essere pacifisti venduti al capitale. I pacifisti però non risposero subito, perché si erano messi a mangiare; alcuni di loro erano digiuni da una settimana, in vista della cena-dibattito e non avendo tra l’altro da mesi quasi alcunché da man­giare. Quindi inghiottirono immediatamente molte tartine, dei sottaceti senza specificazione, del burro e poi il pane che lo accompagnava, e del salame che però non distinsero. Qualcuno bevve anche l’olio; altri mangiarono il sale. Dopodiché il capo dei pacifisti volle aver la parola e si dichiarò pacifista, nominando uno a uno i pacifisti presenti, i quali si alzarono e dissero una frase ciascuno sulla pace mondiale.

Intanto gli scrittori della libertà, furibondi per la bulimia, si erano precipitati a divorare i salumi, la maio­nese (che abbondava e svanì in un attimo), le cipolline, i capperi; dei quali fu bevuto l’aceto, anche se con disgu­sto, perché gli scrittori della libertà disprezzavano tutto ciò che poteva asservirli, quindi anche i cibi e conse­guentemente l’aceto. Ammettevano però che per natu­ra non se ne può fare a meno, dunque mangiarono tutti i grissini che erano in tavola, qualcuno mangiò il pepe, poi bevvero íl vino e, riscaldandosi l’animo, accusarono il pubblico di volerli condizionare, ma loro non sareb­bero scesi mai ad un compromesso qualsiasi, e così dicendo furono servite varie minestre, che i pacifisti senza esitazione affrontarono. Ogni tanto qualcuno di loro enunciava un motto, perché era una cena-dibattito, indi bevevano copiosamente affinché scendessero me­glio lungo l’esofago tortellini, lasagne e formaggio grat­tato, di cui si servivano senza interruzione.

Analogamente gli scrittori della libertà ingurgitarono i maccheroni misti alle tagliatelle e al fritto di mare, perché non era nel loro stile distinguere, e intanto sbrai­tavano contro la schiavitù generale da cui tuttavia erano esenti.

Ci fu una pausa in cui i pacifisti stettero zitti, un po’ imbolsiti, un po’ otturati; mentre gli scrittori della libertà erano rossi paonazzi, ma tentavano di emettere gridi rauchi di indipendenza.

Poi si passò ai cotechini: uno scrittore pacifista ne mangiò sei, perché disse che aveva fame; lo distesero quando finì di mangiare il settimo, e in seguito, nei mesi seguenti, non lo si vide più in giro. Due scrittori della libertà che avevano mangiato da parte loro trentadue cotolette e molti chili di gelatina, erano in viso tutti affocati e tuttavia gridarono “viva la libertà” dopo di che caddero, e con loro ci furono altri caduti, o per le melanzane ripiene, o per il troppo cavolo, o per lo stracotto, o semplicemente per il vino, che andava giù e non pareva neanche di berlo, tanto era l’anelito e il libero arbitrio. Tre pacifisti accusarono le fitte dell’ap­pendicite; ci furono diverse minacce di apoplessia, complicazioni acute al duodeno, enterocoliti, costipazioni gravi, e nel complesso la cena-dibattito finì in una strage su entrambi i fronti, ma fu per gli uni una batta­glia di indipendenza, per gli altri una manifestazione radicale di pace.

Dei due partiti non è rimasto più niente, se non un solitario scrittore dispeptico e agnostico cronico, che non si vuole immischiar di politica e che ricorda di avere partecipato alla famosa cena-dibattito, senza però sapere dire da quale posizione ideologica.

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