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5 Novembre 2020 | Racconti d'autore

Inchiostro e sabbia

Poesie di Sergio Zavoli tratte dal libro “Qualcosa di noi. Guerra, Zavoli, Sughi” (Rimini, Pietroneno Capitani Editore, 2003)

Vittorio Ferorelli e Rita Giannini

Giornalista, scrittore e uomo politico, Sergio Zavoli ci ha lasciati l’estate scorsa. Nato a Ravenna, adesso riposa nella terra di Rimini, a poca distanza dal mare e dall’amico Federico Fellini. L’attenzione alla qualità della lingua e la capacità di trasmettere il senso delle parole con pacatezza sono caratteristiche delle sue poesie. Ve ne proponiamo alcune, tratte da un’edizione rara che contiene anche versi di Tonino Guerra e incisioni di Alberto Sughi. Ringraziamo per la lettura l’attore Pier Paolo Paolizzi.

I

Mia città, con la luce smagrita quel mattino,
prima ancora di cadermi dagli occhi,
al colmo della strada ti spartivi un odore
di barche e di binari; un’aria sconosciuta, una luce
straniera già abitava al di là dei miei passi.

Ma sì, chiamalo esilio,  
come dire sennò dei giorni abbandonati
ai davanzali, con i gomiti in fiamme
per sorreggere il volto offerto alla calura
che ancora sale lungo l’avvinghiato tenersi
al cedevole ottobre,
al suo lento disfarsi delle foglie.

Tutto mi torna,
un odore di ranno o di lavanda
rimasto nelle mani di mia madre
(e dell’uva pigiata da mio padre,
che insanguina un mulino
di ginocchia) e questa era la casa
con un’aria turchina mai più vista.

Il tempo è là, un velo lo sospinge
in fondo agli occhi come la sera
quando assiepa le ombre contro il muro
e cade il sole sulle vele
del porto: presto ci troveremo al primo buio,
tra gli alberi disciolti negli slarghi
aperti dalla luna.

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II

Allora affondavamo nella sera
storie acerbe, di amanti adolescenti
alla ricerca delle piante albine,
fatui chiarori sparsi in quel limbo d’amore.
Si stava in un’acquosa iridescenza,
ciascuno di vedetta dal suo platano cavo
per seguire forme vive e sfuggenti
tra pianta e pianta.
A casa il padre era già al fondo
di una cena, la madre mi passava
la mano sulla nebbia rimasta nei capelli.

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III
Se vai a portare i fiori
lascia anche il mio,
fa che gridi un bel giallo
come la margherita;
lui la coglieva con il gambo corto,
lei l’impiccava all’orlo
del bicchiere, il capino
chinato sulla gola.
E stava lì per giorni,
finché lui non tornava con un altro
piccolo sole in mano.

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IV

Rimanda quei tramonti,
tempo nuovo, distante,
quando stordivo al caldo e l’aria si feriva
ai tagli d’ala dei rondoni bruniti
dai deserti, ora attardati da maremme
gonfie d’acqua e vapori;
e sia d’agosto,
quando il mare si mette tra gli scogli
e i musicanti scuotono le trombe
imbevute di fiato, in ore colme
di garbino, e di uccelli,
e noi seduti sui gradini tra voci di risacca,
una sì, una no.
Sia come quando si cucivano i voli nella conca
in attesa che i tetti si freddassero,
mentre gocciava l’uva dai canestri,
i cani dilaniavano le trecce dell’addolcito
giunco e alle cicale
strideva in gola il pomeriggio.
Ci serravano strette le persiane,
la stanza s’imbruniva e giravamo il viso
sull’acre odore d’erba dei cuscini
di crine, dove arrivava
un rigo di polvere dorata
che trafiggeva il mondo.
Cauta gioia, sei malata da allora,
hai l’albore inconcluso dei mattini
che tardano a sboccare,
un fossile chiarore
non ancora deposto sopra il giorno.

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V

Ardere alla finestra, quando il treno
si sgrana sugli scambi
in cerca del suo viaggio,
mentre nelle siepi di mora
entrano i cani e si scolora
al caldo un esodo di voci,
in quest’ora distesa sui binari, dove sosta
l’odore un po’ salato di sassi e di traverse,
ecco venirmi accanto e farsi largo mia madre,
fino a toccarci i gomiti: lei guardava i convogli
che a Rimini non fermano,
urlanti sopra il ponte di ferro,
io con l’orecchio allo stridio dei treni.

Ora sul davanzale va e viene la luce stupefatta
dell’assenza, non c’è più l’orto tra la casa e i treni,
non tremano più i vetri, solo un fruscio,
tutto come in un cavo di conchiglia
che ti rimanda un’aria conosciuta
e sembra dire portalo al largo
questo congedo magro, controvoglia,
non trattenerlo, abbandonalo al mare,
come la cenere, lascia brillare
la sua luminescenza da un’onda che si rompe,
non tutto è consumato negli addii,
la vita può restare in un’occhiata.

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Musiche
Michel Petrucciani, Stéphane Grappelli – “Flamingo”
Enrico Pieranunzi, Charlie Haden – “Fellini’s Waltz”

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