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26 Giugno 2006 | Racconti d'autore

N°18-RACCONTI D’AUTORE

Alfredo Panzini, “Il padrone sono me!”, Mondadori, 1922.

Composto tra il 1918 e il 1922, “Il padrone sono me!” è il capolavoro dello scrittore romagnolo. Racconta la decadenza di una ricca famiglia borghese e la contemporanea ascesa di una famiglia contadina che per arricchirsi non esita a ricorrere cinicamente alla menzogna.

DIVENTIAMO TUTTI INNAMORATI DELLA DOLLY

Quando è ritornata il secondo anno, era cresciuta come il sambuco, e non era più lei: era una signorina, con una gran serietà, ma invece era come prima.
A me, a me, cosa devo dire? Dicevo che era brutta, ma poi mi cominciò a piacere anche a me, e poi, dopo, mi si è guastato il sangue.
Fintanto che lei stava con la schiena nuda su la spiag­gia, io non la guardavo nemmeno come era fatta; ma dopo, quando era vestita da signorina, ho cominciato a guardarla sempre di più.
“ Sei in paradiso, adesso? ” diceva mia madre che se n’era un po’ accorta. “Vai con gli angioli? Stai con gli angioletti, minchione? ”

Una mattina, di mezzo agosto, che lei andava alla messa, la vedo tutta vestita di bianco. Pareva di quelle pupine che si ritagliano con la carta ricamata. Il collo e le braccia le venivano fuori nude, d’un bianco come l’avena tenera, ma cosi delicate che facevan quasi pau­ra. Camminava leggiera su quelle scarpettine che pareva una capretta. Era un gran caldo, ma avrei voluto toc­carla per sentire se si poteva toccare. Avevo un’idea che fosse fredda come il gelo.
Guardava attorno con certi occhi che pareva non avesse visto mai il mondo.
Ma quando fu nella chiesuola e si lasciò cadere dalla testa un gran velo bianco, la gente la guardava per meraviglia. Assomigliava alla Madonna dell’Immacola­ta con la girandola delle stelle, che stava sopra l’altare. Invece la sapeva lunga! Le labbra, color cerasola, se le faceva davanti allo specchio, e gli occhi più grandi se li faceva col pennello. Ci siamo cascati dentro tutti!

Era allegra, era alla mano con tutti, ma aveva un modo di fare che quando comandava? bisognava ubbi­dire: non si arrabbiava però mai. Proprio il contrario della padrona!
“Quella è un accidente! ” diceva mio padre.

Il padrone adesso, se non la vedeva, pareva che stesse male, e: “Dov’è la Dolly? ” domandava.
Gli altri brontolavano quando lui, il padrone, do­mandava qualche cosa; lei invece indovinava a volo quello che lui voleva, e se Robertino tardava a ubbidi­re, diceva: “Subito! Ubbidisci! Non si discute un or­dine di tuo padre! ”. Qualche volta lo ha preso anche per le orecchie, e lui faceva: “Ahi! ahi!”.
Quando vedeva il padrone solo, lei pigliava il suo seggiolino, gli andava vicino e stava a sentire tutti quei discorsi. E lui diceva: “Vedi, Robertino? La Dolly è intelligente! E perché è intelligente, è anche buona”.

Ma i soldi poi che sprecava non se ne ha una idea! Quando una cosa le piaceva, la voleva.
Le era venuta la passione della roba d’oro, delle col­lane che portano da noi le contadine vecchie. Andava in giro con la padrona per queste case per trovare gli anelli, le filogranate, e quei pendenti che usavano una volta; e quello che domandavano, dava.
Mia madre aveva un vezzo di corallo vecchio e la Dolly si è invogliata e lo voleva ad ogni costo. “Marietta, vèndilo a me!”
Mia madre diceva: “ Sì, volentieri! ” Ma poi si pentiva. E ogni volta do­mandava di più.   “Voi” diceva mio padre a mia madre, “vi fan gola i soldi, ma vorreste avere i soldi, e tenere anche la collana”.“Ma dove li trovano tutti questi soldi?” doman­dava mia madre. E mio padre: “Da quelle parti d’America son tutti affaristi, e i marenghini d’oro vengono su come da noi i fagioli. Battono il telegramma e i soldi arrivano”.

Quando andava in città con la padrona, la Dolly tor­nava con dei pacchi di roba: merletti, seta, bottiglie di rosolio, e tanta di quell’acqua d’odore. “Senti che peste” diceva mia madre. “Come nei boschi, quando passano le biscie. ”
A me, però, mi piaceva.

Una volta si incapricciò dell’asinello che la somara aveva partorito.
Appena l’ha veduto con quel musino, e tutto bel tondo col suo bel pelo, che saltava nell’ aia, l’ha voluto.  “Tu lo vendi a me, Mingòn! O carino, carino,” diceva “sembra un giocàttolo. Adesso, Robertino, gli inse­gniamo a correre e dopo lo attacchiamo a un bel car­rettino”. “Sì, sì,” diceva lui, perché se lei gli avesse detto di correre a prendere la luna, lui diceva: “sì, sì,” e si sarebbe inviato per prendere la luna.
E lei e Robertino si sono messi a far la scuola al so­marino. Ma appena gli è andato via il pelo da latte, non le è piaciuto più. Robertino poi si è preso un calcio che non poteva stare in piedi, e piangeva dal dolore.
“ Dove? ” diceva la Dolly “nel ginocchio? ” “ No.
“ Nella gamba? ”
“No.”
“Nel petto? ”
“ No. ” Lui non lo poteva dire.
“Te l’ho detto, figliuolo mio,” diceva il padrone, “che i somari non corrono.”
“Ma in Africa corrono. ”
“Quelli africani…; ma gli italiani, no.”

Brano corrente

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