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10 Aprile 2006 | Racconti d'autore

N°7-RACCONTI D’AUTORE

Attilio Bertolucci, “La camera da letto”

Cari amici, vi leggiamo oggi i versi di uno dei più grandi poeti italiani, Attilio Bertolucci, nato vicino a Parma nel 1911 e morto nel 2000. Attilio Bertolucci è il padre del noto regista di cinema Bernardo Bertolucci.

“La camera da letto” è un lungo romanzo in versi, diviso in due libri e articolato in 46 canti, al centro del quale si colloca la vita familiare attraverso il succedersi delle generazioni. Ne risulta una sorta di epica del quotidiano, che va dalle origini favolose, quando i progenitori si insediarono nella campagna parmense, fino all’inurbamento del protagonista, e agli anni del matrimonio e della nascita dei figli. Sullo sfondo, sta sempre la storia, con le sue dure necessità e i suoi riti.

Oggi vi leggiamo il canto XXI del primo libro, “Il ritorno”, dove protagonisti sono l’estate e la campagna ma che si conclude con un’immagine rabbrividente della madre del poeta alla finestra, già minata da un male che lentamente la ucciderà.

Il ritorno

Venga, venga l’estate e il ritorno
a B., dove a quattro chilometri dalla barriera
daziaria è già campagna, con silenzi alati
di rami foglie e uccelli per aria che si muove,
tremuli di pellicola combusta se l’aria è ferma.
Avvenimenti: il passaggio raro dei tram foresi
in transito fra Parma e la collina popolosa,
con obbligo di fermata anche a B., e dunque
fischi, freni, suono lungo di un tromba
in ottone, dan dan dan dan del manovratore
impaziente, pronuncia dialettale da parte
del bigliettaio di questo allegro nome di frazione,
parole, motti, risa perdentisi se il convoglio va via…
E l’albeggiare, doloroso, dei pochi fari d’auto
prima in lentissima nascita per la strada avvallata,
poi occhi indomiti, incendi, soli non evitabili
da coloro cui è concesso, forse imposto, conoscere —
in compagnia dei grandi lungo la notte nel suo primo
quarto benigno — riconoscere una marca dal motore che
                                                                   
passa
non meno di una costellazione dal palpitare degli astri. 

Vivono essi la bella età moderna,
appartengono tutti
a famiglie giovani, di classe privilegiata,
medio alta borghesia agraria, mercantile e professionistica,
sfumanti le differenze via via
che la serena giornata estiva procede
garantita dall’alto dei suoi ingiusti e lieti
compimenti, poi che anche qui,
in questa  già riottosa provincia settentrionale
vige l’ordine
a beneficio (della violenza
s’è perduta la memoria) di chi
è immischiato nel miele del presente,
nelle follie permesse dalla moda.
Ardenti soli bruniscono frumenti gravi di maturità,
ultime lucciole delirano atterrate
fra fieno e rose, fra prato stabile aperto
alla rondine religiosa e giardino riservato agli
usignoli lascivi.
In tale allegra congiuntura
di stagione dell’anno e di età di persone,
si annida pigra, si rivela appena a tratti rapidi,
quasi una dolcezza o un lusso in più
della più cara e amata delle donne,
la malattia, le sue
scadenze sembrano lontane, per ora,
poi che non sono intaccate
la sua bellezza e la sua allegria,
la se ne rende conto soltanto per le intrusioni mattutine
del medico, porte a vetri sbattendo
negli arrivi e nelle partenze di una
indiscrezione rassicurante chi
nell’ombra di una sala a terreno fresca come una tomba
o una cantina (però maculata di sole)
ama soffrendo la violazione della carne che ama.

Giugno ha finito di scaricare i suoi fulmini
azzurri nelle brevi notti diurne dei temporali
senza che la grandine abbia prodotto danni a noi, è
tempo di mietere, ancora una volta tempo
di trebbiare con i riti d’obbligo cui benigna si sottomette
Maria, annodatasi un fazzoletto rustico rosso e blu
sui capelli neri, indossato un abito di cretonne
a fiori: vestizione che le serve disapprovano,
accettano amorosamente, gioiosamente,
le spose contadine coetanee confondendosi
a lei nell’assordante pulviscolo che a lotta
la macchina a vapore nera, l’imballatrice
gialla e carminio in vittoriosa attività qui
per tutto il giorno, fervido spartiacque dell’anno.
Con la prima sosta, iniziato il lavoro
nel fresco grembo dell’alba, alle otto:
e la colazione, fra cucina, e dispensa
della casa padronale, in un profumo
di pane e caffè, mentre
già, provocando i macchinisti
forestieri, gli odori che accompagnano il lesso
in lenta cottura alludono al pranzo
di propiziazione e di ringraziamento che a metà dell’opera
Maria offre a tutti coloro la cui fatica avrà
contribuito alle scorte primarie per l’esistenza.
All’agape meridiana schermata, da tele dipinte alle finestre
di cui la borghesia ancora, ma per poco,
si compiace quasi dì vessilli domestici,
partecipa per diritto e per gioco il figlio quattordicenne
che per prolungare l’infanzia accudisce paziente
a preparale il filo di ferro lucido che legherà
la paglia, aiutato, servito
da un ragazzo contadino di poco più giovane, ma
tanto più abile di lui ed esperto, primamente esperto
nel lavoro e nel vizio.

La regressione rurale, beata, estiva, della trebbiatura
ha lasciato sul terreno le spoglie
infime del frumento, polvere l’olio fili di paglia
qualche grano perso, già amalgamantesi col terriccio
e con l’erba eternamente umiliata
che cresce attorno a casa. La pioggia
scurirà, marcirà i residui
d’un pulviscolo che stregò tutto un giorno ormai morto.
L’estate procede, B. è al suo acme di villeggiatura ideale
per chi non vuole, o non può, allontanarsi dalla città,
Parma, non più visìbile per la cortina di foglie
che frappone il rigoglio delle piante,
quelle dei coltivi e quelle dei parchi, diversamente separate,
                                               
diversamente necessarie,
e le onnipresenti, spontanee, inutili gaggìe, specie a se
che vigoreggia senza cura di nessuno
in terreni mal esposti e trascurati. Eppure
hanno foglie lunghe e tenete, tronchi schietti, esili, dritti,
                                                             
innamorano
forse per la loro inutilità, per la loro
giovinezza mai smentita e anche perché
quando s’infittiscono in macchie
offrono riparo a chi, in coppia, o, con più tremito, solo,
vuole nascondersi, morire agli altri, al rumore inestinguibile
del giorno d’estate,
dalla sua crescita alla sua perdita — spazio infinito —
senza che il buio vegetale sia attraversato da occhi spioni.
Qui è possibile spendere —
in triste pace — le lacrime che il corpo produce in eccesso.

Le mattine, poiché siamo già a luglio avanzato e batte
sui timpani delle messi raccolte
e distese nei granai ventilati, mari ondulanti sino
                                                 alla perdizione
dell’occhio e del piede infantile che vi si avventuri senza
scorta (o dell’adolescente che vuole camminare a ritroso in
                                                                     
se stesso
non conoscendo il pericolo del suo procedere innaturale), batte
un tempo ingrato per vivere in questa pianura
a clima continentale, da lasciarvi soltanto chi lavora
(e famiglie), col ristoro dei canali nel giorni svarianti
del diritto d’acqua irrigua, la compagnia delle rondini su e
giù nell’ombra delle stalle,
dei grilli che prendono la notte per il giorno lungo i prati
falciati.
Queste estreme manine prima della seconda villeggiatura,
la città è bellissima.
Arrivarci fra le otto e le nove, chi già in automobile
(da chiudersi nel garage privato o nella rimessa che
ospitò carrozze e cavalli di Giovanni Rossetti in un altro
                                                                
tempo
vivido nel ricordo in prospettive di neve e di fuoco — );
chi nel tram forese scampanellante sin dentro la piazza,
campo di manovre rumorose a dispetto dei cittadini malevoli
che soltanto anni e anni a venire riusciranno a fermare fuori
                                                                         
barriera
il pesante convoglio, scuotitore di selciati e pianterreni,
vomitante fuori dalle sue vetture verdi come ramarri
campagnoli e villeggianti ugualmente spregevoli
per non aver goduto e sofferto
l’afosa notte dei borghi rossa di luna e di angurie.

Si sono dispersi in un animo, ad attenderli
erano studi di avvocati neri di luce piombata
da vetri nemici del giorno che passa e delle sue gioie,
mercantini vivacemente stretti in ripostigli splendidi per
sete di gomitoli
policromi, sarti impudichi nella prova dell’adolescente
                                                               
confitto
di aghi nella figura, feroci con le imbastiture provvisorie,
bustaie esperte come maitresses nel valutare
le forme delle madri giovani in prima sfioritura,
infermiere stracche recanti lettere sigillate e ipocrite,
notule aperte che è lieve pagare nell’orgasmo
                                         
della partenza, e
il piccolo profumiere, l’unico e l’unica pasticceria,
ombrosa dispensiere di una
dolcezza impareggiabile da venire poi
rammemorata e rimpianta per tutta la bella estate
che li sparpaglierà dai Tirreno alle Dolomiti.
o al familiare Appennino,
dimentichi della piccola patria salvo che per
le millefoglie, le maddalene dì Maria Pagani.
Giovanni Rossetti nel fantastico arazzo (o nella miniatura?)
delle sue ricche ore
di prima della prima guerra mondiale e dei primi sìntomi
uricemici,
qui arrestava la carrozza all’ultima incombenza, al rito del
vermut e del pacchetto di paste,
salutando la città in via
di venire abbandonata da lui fino alla mattina seguente.
Ora il nipote ne commemora l’esistenza
tristemente goloso delle stesse creme mentre
il legame fra essi, Maria, l’ha perduto di vista, assorta
a un brindisi solitario. Si ritroveranno tra poco,
colpevoli e sfuggenti, madre e figlio, attraversanti, ombre nere,
il corso infuocato del mezzogiorno — diretti al tram fermo
                                                           
in muta attesa.

La notte avanti la partenza fu la più calda dell’anno.
All’una durava ancora il tramestio, dentro e fuori casa,
l’interno illuminato eccezionalmente dal pianterreno ai solai
dove ai topi si era attaccata l’inquietudine degli altri abitanti
                                                                               
fra
quelle mura, presto abbandonate ad essi clandestini.
La dimora amata, la scena di tanta parte
della vita (con i suoi ricambi naturali, le floride
quinte di piante riverniciare di luce, e
più in ombra, appena rivelati debolmente, i profili
del rustico con l’appendice della stalla che non ha mai requie),
sarà domani vuota. Un così grande spreco di lampade
accese vuol compensare notti scure e silenti come se tutti
fossero morti?
Finisce anche questo lunghissimo tempo d’impazienza per la
villeggiatura, restano a rompere il buio soltanto
i filamenti rossastri degli zampironi destinati a crollare,
cenere e ombra, non meno dei corpi distesi. Sarà
Maria a salutare l’alba d’estate in veste rosa e verde,
rabbrividendo alla finestra del bagno che accoglie luce nuova,
aria che avanza dalla campagna già sveglia nei suoi esseri
più minuti, gli insetti,
sveglia Maria negli occhi febbrili a veglia dei minuti residui
di sogno
entro le stanze non ancora raggiunte dalla vittoria del sole.

 

Brano corrente

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