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11 Marzo 2021 | Racconti d'autore

Pianura

Testo tratto dal libro omonimo di Marco Belpoliti (Torino, Einaudi, 2021)

Vittorio Ferorelli e Rita Giannini

Scrittore, critico letterario e direttore della rivista culturale “doppiozero”, Marco Belpoliti ha dedicato un libro alla pianura padana, raccontando luoghi, storie e incontri che hanno aperto il suo sguardo, tra cui quello con Luigi Ghirri e il suo modo di fotografare ciò che si crede “già visto” come se lo si guardasse per la prima volta. In occasione della “Giornata nazionale del paesaggio” del 14 marzo ve ne proponiamo un brano, ringraziando per la lettura Marzio Bossi e l’associazione “Legg’io”.

Autunno
Bencini Comet

Tu lo sai che esistono varie leggende intorno a Luigi Ghirri. Ne abbiamo parlato diverse volte nelle visite che ti ho fatto nella città dove ti sei trasferito. Ora, le leggende, per quanto create dalla immaginazione di chi le diffonde, contengono sempre qualcosa di vero. Il fatto è che Luigi, oggi reputato uno dei grandi fotografi della seconda metà del Novecento, non era nato fotografo, non aveva seguito nessun corso per diventare tale. Non era neppure laureato. Veniva dalla campagna e lí era rimasto sino ai diciotto anni. La sua educazione visiva, se cosí si può definirla, era avvenuta attraverso il cinema e frequentando uno zio pittore. Poi c’erano in casa dei libri illustrati, che sono stati fondamentali per la sua sensibilità.
Durante la guerra era sfollato in un edificio dalle parti di Sassuolo messo a disposizione delle famiglie dall’amministrazione locale e lí era rimasto per alcuni anni. Nel 1960 la sua famiglia si era trasferita a Modena, e lí lui aveva studiato da geometra. Otto anni dopo era diplomato e aveva preso a esercitare quel mestiere. L’aveva assunto una società che vendeva case, e lui non era certo molto contento di quel lavoro. Gianni Celati racconta che in azienda si rifugiava al gabinetto per poter leggere in pace durante le ore di lavoro, e questo infastidiva molto il suo principale, cosí aveva finito per licenziarsi con grande soddisfazione.
Il punto di passaggio tra l’attività di geometra e la fotografia è stata la grafica. La leggenda vuole che abbia aperto uno studio di grafica, e poi abbia cominciato a scattare foto. In realtà fotografo dilettante lo era già da ragazzo, visto che i genitori gli avevano regalato una macchina. Ennery Taramelli dice che si trattava di una «Bencini Comet», un apparecchio prodotto da un’azienda di Torino a partire dal 1946. Era una macchinetta a buon mercato; anche a casa mia ne avevamo una, segno che tra Reggio e Modena se n’erano vendute parecchie. Al mercato dell’usato ne offrono ancora oggi diverse a prezzi bassi. La fotografia dopo la metà degli anni Cinquanta, quando nelle nostre case era arrivato un po’ di denaro, aveva contagiato tutti, come poi era accaduto nel decennio successivo con la cinepresa: tutti a fare filmini casalinghi negli anni Sessanta.
La sua educazione fotografica è perciò quella di un autodidatta e si è svolta con la «Bencini» in mano, oltre che sui libri d’arte che acquistava all’epoca in cui viveva a Modena, in una villetta in via Mantegna sul bordo della campagna. La sua attenzione alla periferia è nata probabilmente lí, sul margine tra città e campagna; è la periferia che ha poi ritratto nelle sue immagini, non quella delle grandi metropoli ma la piccola periferia urbana che s’è sviluppata nelle nostre città di pianura quando nel corso degli anni Sessanta hanno cominciato a espandersi fuori dalla cerchia delle mura o al di là degli immediati dintorni. Come sai mio zio, che è stato geometra, aveva progettato le case per i suoi fratelli; erano tutte ai bordi della campagna a breve distanza dal centro. Nel 1960, quando andavo alla scuola elementare, le strade intorno alla nostra abitazione non erano ancora asfaltate, e poco piú in là c’erano i campi; i contadini vendemmiavano in ottobre i filari di viti proprio lí vicino e noi andavamo a mangiargli l’uva quando non era ancora matura. Ghirri è uno dei nostri, anche se poco piú vecchio di noi due.
Quando l’ho incontrato per la prima volta era già abbastanza noto, non come ora, ma abbastanza. Eravamo a una conferenza di un comune amico, seduti vicini. Poi lui, l’amico, ci ha presentati. Io non sapevo che lavoro facesse e non avevo collegato quell’uomo piccolo, molto allegro e curioso, ai suoi scatti. Del resto li conoscevo ancora poco. Tempo dopo mi ha invitato a una sua conferenza in occasione della Fiera di San Simone a Montecchio Emilia. Eravamo a metà degli anni Ottanta e cosí ho visto la sua mostra, Viaggio di ritorno, allestita dal Cinefotoclub del paese. Ho ancora il pieghevole con un suo testo estratto da un intervento letto a Graz poco tempo prima, a un simposio di fotografia, sul tema delle reciproche influenze tra Europa e America. Mi sorprese molto.
In realtà lui aveva già cominciato a fotografare ed esporre da parecchio tempo. Ennery ha ricostruito quali sono stati i suoi primi scatti, quelli che poi abbiamo rivisto di recente nelle mostre a Roma, poi a Madrid e anche a Parigi. Tra quelle immagini c’è lo scatto in cui si vede una rete metallica con un’apertura, che sembra un quadro per via della cornice e dello straccio infilato dentro. Luigi era ritornato in un luogo chiamato Ca’ de Caroli, una frazione vicino a Scandiano, dove era nato, per fotografare una fabbrica in rovina. Era un luogo della sua infanzia.
Penso che per lui, e non solo per lui, l’infanzia sia il luogo magico da cui provengono tutte le immagini che ci colpiscono senza però ferirci. Ghirri ha avuto la bravura di renderle visibili con la sua macchina fotografica. Ha catturato qualcosa che conosciamo tutti, senza però che ne abbiamo coscienza, qualcosa che ci appartiene. C’è una parola che lo dice bene: «incanto». E poi anche la parola «mistero», perché c’è sempre qualcosa di misterioso nelle sue fotografie, una forma di inquietante tranquillità, come ha detto lui una volta.
Per tornare a quella leggenda, intorno a cui Celati ha poi imbastito il suo film dedicato a Luigi, la scoperta del suo lavoro è avvenuta per caso, quando ha fatto una mostra nelle sale di un albergo di Modena, l’Hotel Canalgrande, non lontano dalla casa di famiglia di Delfini. Un critico d’arte e di fotografia, Massimo Mussini, uno di Reggio come noi, di un anno piú vecchio di Luigi, è passato per caso di lí e l’ha vista e ne è rimasto subito colpito e l’ha messo in contatto con un professore dell’Università di Parma, Arturo Carlo Quintavalle, che si occupava di fotografia. In questo modo è arrivato alla sua prima grande mostra, intanto non disdegnava di esporre nei circoli fotografici della pianura, come a Montecchio.
La leggenda piú nota è quella della sua distrazione, di essere un uomo molto distratto, cosí che si dimenticava di tante cose. Per anni, ha raccontato Celati, viaggiava su vecchie auto scassate, e non si preoccupava molto di questo e le automobili spesso si rompevano in modo definitivo su qualche autostrada lasciandolo a piedi. Era come se la sua testa fosse occupata prima di tutto dalle immagini, quelle che aveva visto da ragazzo in campagna, poi quelle delle illustrazioni dei libri d’arte, e anche le immagini delle cose che vedeva sui muri e lungo le strade di Modena: cartelloni pubblicitari, negozi, vetrine. La sua immaginazione si era alimentata, come ha detto Celati, di un modo di abitare diverso da quello urbano, che è un modo frettoloso, disattento alle cose. La sua era una attenzione fatta di cose antiche, ma sempre nuove, quelle che vedono gli abitanti della campagna emiliana da secoli: pezzi di cielo, oggetti di casa, muri sbrecciati, vecchie cascine, cose di nessuna importanza per cui mai nessuno prima di lui s’era fermato a ritrarle. Una volta ha detto che nella sua fotografia non c’era nulla di nuovo, che era tutto già visto, e che una foto è solo una immagine vaga del mondo, come l’ombra di una macchina che passa e si proietta sul muro. Lo ha raccontato Celati in un suo testo, che poi ha letto nel teatro di Fontanellato, un paese dove c’era una camera oscura molto antica, all’interno della Rocca Sanvitale, in cui si vede il mondo circostante rovesciato contro la parete di fondo, come dentro i nostri occhi.
Quello che ho imparato a vedere soprattutto dopo la sua morte – ero già andato ad abitare lontano dalla nostra città, in Brianza – è che nella sua fotografia appariva il già visto e il già immaginato, e in particolare il già sognato. Ancora oggi, quando mi capita in mano una sua fotografia, o guardo le due che possiedo, mi domando: dove ho già visto tutto questo? Nell’infanzia, mi rispondo, ma poi mi rendo conto che dell’infanzia non ho molti ricordi, solo delle immagini che mi appaiono come lampi nella testa, accensioni improvvise. Cosí sono le fotografie di Luigi Ghirri, degli abbagli di memoria, che però permangono.
Lo sai che qui da noi nella pianura tutto sembra annodato, tutto si rimanda, ed è una strana sensazione d’appartenenza a qualcosa che c’era prima di noi e ci sarà dopo di noi, qualcosa che ci rende sereni, anche se a volte ho l’impressione che sono dovuto uscire da quell’incanto, andarmene via, lontano, per vederlo meglio. Forse ho cominciato a vedere bene solo quando sono apparse nel mio orizzonte le foto di Luigi. Vedevo da fuori quello che avevo dentro. Quando si è legati e troppo a un luogo, questo, oltre a rassicurarti, finisce per imprigionarti. Noi cerchiamo il già conosciuto, quello che ci appartiene, e, appena l’abbiamo, sentiamo che è lí come stare in carcere, per cui è necessario evadere. Le fotografie di Luigi Ghirri hanno dato forma a quel luogo che era mio, anche tuo, e che ora potevamo guardare con piacere, senza temere la cattura. Sono fotografie serene, comunicano serenità. Sono fotografie della memoria. Una volta Celati mi ha detto che quando Luigi aveva comprato la casa di Roncocesi di sera accendeva tutte le luci nelle stanze e poi usciva per guardarla da fuori, per contemplarla. Era la casa della sua infanzia che vedeva? Una casa che non esisteva se non nei suoi sogni e nelle sue immaginazioni? O forse era la casa che aveva visto una volta, tanto tempo fa, ed era rimasta impigliata nei suoi ricordi. La casa del sogno. Per questo ho deciso di tornare là.

Autunno
Quasi niente

[…]
La casa è su due piani. Ha imposte verdi e al piano terra delle inferriate bianche intrecciate in diagonale, come si usava un tempo qui in campagna. Roncocesi è una delle ville del contado di Reggio. Dopo la morte, mentre sua moglie Paola era malata, la casa ha preso fuoco e le fiamme hanno divorato il tetto e il solaio. Adele, la figlia piú piccola, nata poco prima che Luigi ci lasciasse, ha perso tutti i suoi giocattoli da bambina nell’incendio e, mentre i pompieri spegnevano il fuoco, l’acqua ha preso a colare verso il basso. Per fortuna, Maria, che cura l’archivio, ha messo in salvo le fotografie stipate nelle cassettiere lungo il corridoio, vicino all’ingresso. Hanno ricostruito tutto: pavimenti, travi, tegole.
Daniele ha accompagnato Luigi negli ultimi anni in giro per la pianura. Anche lui è un fotografo. Lo era anche prima di cominciare a dargli una mano nel lavoro, prima a Modena e poi a Reggio nella nuova casa. Vive a Milano. Mi ha raccontato di aver avuto in tasca l’ultimo rullino con gli scatti fatti da Luigi pochi giorni prima che il suo cuore si fermasse la sera del 14 febbraio. In quelle immagini ci sono alcune delle sue fotografie piú misteriose. Sono quelle che recano come didascalia: «Roncocesi 1992». La piú bella, stampata dopo la sua scomparsa, raffigura un piccolo corso d’acqua che scorre vicino alla casa, poco piú che un rigagnolo. Te la ricordi di sicuro, perché una volta ne abbiamo parlato, e mi avevi detto di essere andato a vedere la mostra alla Ex Caserma Zucchi a Reggio, dove c’erano tantissime fotografie.
Vi appare come una sorta di piramide bianca che divide le due rive erbose di color verde-marrone, una sulla destra e l’altra sulla sinistra. Un giorno di nebbia, come ce ne sono tanti nella Pianura, anche se ora, in autunno, ventisette anni dopo, la nebbia sembra scomparsa. La parte superiore dell’immagine è una macchia biancastra, lattiginosa, evanescente, che pare sfumare nel nulla. Un quasi-niente, come mi è venuto di pensare la prima volta che l’ho vista stampata sul catalogo nella mostra allestita dopo la morte di Luigi.
Sono andato a Roncocesi proprio per cercare quel fossato. Nello studio di Luigi mi sono seduto sulle sue sedie insieme a Adele e Maria. Daniele è arrivato apposta da Milano. Mi ha spiegato che il fossato non c’è piú. L’ha già cercato un giorno, tempo fa, insieme a due amici di Luigi che lo volevano vedere. Forse abbiamo pensato alla stessa cosa, o forse no. Chissà che idea avevano in testa? Forse per tutti era come una specie di rito, come quando dopo il funerale ci si mette a tavola con i parenti e gli amici, e si celebra il defunto con pane, lambrusco e una fetta di salame. Volevo fare lo stesso, e dato che Luigi è vissuto d’immagini, ho pensato a quella ultima foto come a un congedo.
I lavori dell’Alta velocità, che passa vicino ai luoghi dello scatto, poco lontano dalla casa, hanno sconvolto le campagne. Oppure, ha aggiunto Daniele, il contadino ha semplicemente chiuso quel canale di scolo con una benna e ne ha aperto un altro. Chi lo sa? Non esiste piú, cosí quell’immagine non corrisponde piú a nulla là fuori; è solo un’immaginazione, come del resto tante delle fotografie di Luigi dedicate alla Pianura.
Resta solo il suo pensare-immaginare, come ha detto una volta Celati, riferendosi al suo lavoro: le immagini fanno immaginare e non corrispondono mai a una vera realtà. C’è stata, e probabilmente ancora c’è, come immagine, e adesso soprattutto come immaginazione. Forse sono venuto qui proprio per questo, per capire cosa volesse dire pensare-immaginare per Luigi. Tutto sta in quel trattino che congiunge i due verbi. Almeno credo.
[…]

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Foto
Aaron Carlson – CC BY-SA 2.0

Musiche
Bob Dylan – “Desolation Row”
Ryuichi Sakamoto, Paula Morelenbaum, Jaques Morelenbaum – “Tema para Ana (instrumental)”
Ryuichi Sakamoto, Paula Morelenbaum, Jaques Morelenbaum – “Chanson pour Michelle” (instrumental)
Johnny Cash – “Further On Up The Road”

Brano corrente

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