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30 Settembre 2021 | Racconti d'autore

Sonavan le quiete stanze…

Testo di Claudio Ballestracci tratto dal libro “La Casa di Rossini a Lugo” (Comune di Lugo, 2020)

Vittorio Ferorelli

A Lugo di Romagna Gioachino Rossini è vissuto da adolescente, nei primi anni dell’Ottocento: oggi, nella casa che fu di suo nonno, l’artista Claudio Ballestracci ha creato un museo particolarissimo, tutto dedicato al grande compositore. In queste righe ci racconta come ha fatto. Ringraziamo per la lettura Francesco Angelelli e l’associazione “Legg’io”.

Il Doppio invisibile

Nelle mie precedenti esperienze di allestimento museale, prima di delineare un progetto mi sono sempre confrontato con la concretezza del luogo, ossia con gli oggetti fisicamente a disposizione: documenti cartacei, arredi, abiti o quant’altro appartenuto al compositore. Dopo di che, mi predisponevo all’ascolto, alla ricerca di ogni plausibile correlazione, prestando attenzione a ogni pur minuscolo particolare, a caccia di indizi da cui trarre segnali in base ai quali orientare la mia ideazione.
Nel caso dell’allestimento di Casa Rossini, a Lugo, quella liturgia è entrata in crisi: le stanze erano vuote, senza la pur minima traccia lasciata dal compositore, del tutto prive di arredi originali a cui appellarmi. Lo studio della biografia e dell’opera di Gioachino Rossini mi ha aiutato a focalizzare i punti di contatto della Casa con la città e la sua storia, ma questo non era sufficiente.
Il vuoto si confermava essere segno, camminamento, passaggio obbligato attraverso cui disporre le prime “esche” emotive e, all’unisono, accendere l’attenzione critica per approssimare un Rossini velato, rintanato, apparentemente invisibile nella piccola dimora a due piani di via Rocca.
Mi recavo spesso a Lugo solamente per sostare a lungo in quella casa, anche di notte, sdraiato sul pavimento, in ascolto. A volte, al piano terra, guardavo le travi così basse e mi sembrava di aver trovato dimora in uno strumento musicale, da dove spiavo il fuori come attraverso gli intagli di un violino: forse mi trovavo dentro la cassa armonica di un grande strumento musicale?
Questo vuoto silenzioso, sterile solo in apparenza, portava in sé una qualità fondamentale: conteneva, amplificava e modulava frequenze. La casa, nel gioco degli azzardi ideativi, assumeva le caratteristiche di una grande cassa acustica dotata di filtri speciali per selezionare, non soltanto le frequenze, ma anche la narrazione. Forse, varcando la soglia, entrando in quel suo speciale rivestimento, sarebbe stato possibile vibrare con la casa stessa, percepire le pareti quasi fossero un corpo, sentirsene sfiorati, abbracciati o guardati.
Nelle permanenze (e allucinazioni) notturne, la sensazione di essere spiato oppure toccato dall’edificio quasi fosse vivente mi aveva affascinato. Questa idea estrema e totalizzante della percezione di un luogo mi ha ricondotto, forse in modo leggermente difforme, alla felice espressione “sonoro interno” che Goffredo Parise usa per evocare l’esperienza sensoriale provata nel luogo in cui ha scelto di vivere e lavorare, entrandone in comunione, a “respirare il senso del tempo sia atmosferico sia psichico”. […]
Queste prime suggestioni mi hanno convinto a porre al centro dell’allestimento di Casa Rossini la musica: una scelta naturale, ma non ovvia.
Mentre mettevo in atto la mia strategia per portare allo scoperto l’invisibile protagonista, il vuoto iniziale si andava colmando di musica. Pur nell’assenza di documenti, nello spirito impalpabile della musica avvertivo la presenza di un Doppio invisibile, inafferrabile. La sua presenza mi ha portato a disegnare e fabbricare oggetti attraverso i quali dare corpo alla vita e all’opera dell’enigmatico Autore: strumenti da cui l’energia vitale fluisse con il fluire del suono. Non appena questo si fosse interrotto, sarebbe ritornato l’invisibile o – meglio – lo spirito di chi abita quegli spazi.
A partire dall’ingresso, le grandi ff in metallo – ossia i fori di risonanza presenti sulla tavola armonica di diversi strumenti musicali a corda – accompagnano il visitatore lungo l’intero percorso della casa: divenuta cassa di risonanza dell’opera di Rossini.

La meraviglia del fare

Ho subito pensato alla “Stanza del prodigio” come a un preludio: strettamente legato all’epoca di Lugo e prodigioso per l’età del compositore, dodicenne. È il motivo per cui ho voluto trattenere e sviluppare nella prima stanza della casa questo “germoglio” della sua adolescenza, la prima delle sei sonate a quattro.
Fin dall’inizio, ho immaginato di predisporre una scena che invitasse all’attesa e, insieme, preannunciasse un’esecuzione. Siamo in un museo – e dunque ho voluto che fosse il visitatore stesso a farsi “musicante”. Come infatti avviene nel momento in cui egli apre uno dei quattro spartiti, attivando il suono del singolo strumento a cui lo spartito è dedicato.
La mediazione museale è qui pertanto triplice: oltre allo spazio della scena e agli oggetti realizzati per trasmettere il suono, diventa sostanziale la presenza del visitatore che, artefice in prima persona, anima in ogni senso lo spazio, altrimenti silenzioso.
Peraltro, ciascuna partitura può essere seguita non soltanto attraverso l’ascolto, ma anche visivamente: nella grafia originale, stampata su tessuto e retroilluminata; nei fogli di spartito, annunciati dalla bella grafia di Rossini, qui sospesa e intagliata nel ferro; nelle copertine, riprodotte su plexiglas e lamiera, che provengono dalla Library of Congress di Washington.
Il quartetto d’archi è percepito come uno strumento unico, e i musicisti suonano all’unisono. Nel nostro caso, per ottenere quattro esecuzioni distinte ho dovuto separarli. La sala di registrazione è stata divisa in quattro ambienti acusticamente isolati e trasparenti: ciascun musicista, provvisto di cuffie, suonava, ascoltava e vedeva gli altri, mentre ciascun microfono registrava i suoni, l’uno indipendentemente dagli altri.
Compiuta la “profanazione”, disponevo finalmente di quattro esecuzioni pronte per essere ascoltate ereticamente in assolo, in duo, in trio o, fedelmente, in quartetto.
Come per il corridoio che ospita i primi segni dell’allestimento – i teli biografici retroilluminati – anche in questa stanza non sono previste luci per illuminare l’ambiente. Ciascun elemento è portatore o riceve luce in modo puntiforme: così i quattro leggii, che in condizioni di riposo sono illuminati in modo da attirare a sé tutta l’attenzione ma, non appena l’uno o l’altro è attivato, la corrispondente luce a pioggia si spegne per creare una condizione di maggiore intimità fra il visitatore e la musica. La percezione di queste sfumature emotive legate al mutamento della luce sono consapevolmente molto diverse se la visita avviene di giorno, oppure di sera.
Solamente a lavoro concluso, mi sono accorto di non pochi segni: la presenza vertiginosa di un pozzo freatico che si apre nel terreno sotto ai nostri piedi, mentre il soffitto ci sorveglia come all’interno di un contrabbasso. Non ultima, la finestra, che dà su un minuscolo giardino abitato da una sola pianta, un giuggiolo – per gli antichi Romani simbolo arboreo del silenzio.

Il giuoco delle campane di vetro

Nella “Stanza della mappa” l’oggetto pilota è un grandissimo tavolo. L’idea da cui sono partito era di tracciare una mappa su un foglio, a mano libera, adottando una grafica semplice, come per indicare la strada a qualcuno. Disegnata, la sinuosa linea è divenuta il piano stesso del tavolo, che porta in superficie l’immagine delle “stazioni” compositive di Rossini, dagli albori all’ultimo capolavoro. Ma non mi bastava: le stazioni lungo il tracciato avrebbero racchiuso un frammento musicale di ogni singola opera, in modo da restituire immediatamente, all’ascolto del visitatore, il pathos della composizione.
Mi è venuta in soccorso l’immagine di una precedente installazione, dove avevo usato alcune cupole in vetro disposte lungo un tavolo al cui interno avevo fatto circolare, tramite condotte idrauliche, della nebbia artificiale.
Nel caso presente, la nebbia poteva trasformarsi in musica e, le cupole, essere sostituite da campane provviste di un pomolo con cui sollevarle. Mi sono tuttavia accorto che l’avvio della musica tramite un interruttore on-off strideva con gli armoniosi attacchi di composizioni musicali che scaturiscono da voci, legni, ottoni e strumenti a corda di un’orchestra classica sette-ottocentesca.
Una nuova immagine mi è allora sopravvenuta dalle prime sperimentazioni acustiche sulla propagazione del suono. Nel Seicento, Otto von Guericke, utilizzando una suoneria collocata sotto una campana a vuoto, dimostra che il suono, prodotto dalle vibrazioni degli oggetti, necessita per propagarsi di una sostanza: solida, liquida o gassosa che sia. La campana in vetro, oltre che oggetto di protezione, diventa dunque strumento fisico di inibizione del suono. Di qui, in collaborazione con il maestro Marco Mantovani, l’idea di trasmettere le ventisei opere prescelte ad altrettanti altoparlanti sotto campana, in modo da ottenere, all’unisono, una tavola riccamente imbandita di prelibatezze rossiniane e poterne disporre a piacimento.
Ribellandosi al disegnatore, la flessuosa tavola ha assunto le fattezze di un ibrido pianoforte senza tastiera, bensì provvisto di una coda spropositatamente lunga. La coda si agita, e le arcane leggi che talvolta governano l’autonomia di un’opera mi regalano un’ultima sorpresa. Terminato ogni cablaggio, avviata la macchina, ho avuto la vertiginosa sensazione che il tavolo sonoro fosse fuori controllo, che gli automatismi non soggiacessero più alle regole prestabilite e Rossini stesso fosse entrato in scena a governare quel mastodontico opus magnum da lui stesso composto.
Le musiche erano bensì inserite l’una accanto all’altra nel medesimo supporto. Tuttavia, sebbene fossero isolate acusticamente dalle rispettive campane, alcune frequenze filtravano tramite la vibrazione del tavolo stesso, partendo dal telaio in ferro che funge da cassa armonica e propagandosi lungo l’intera superficie. Inoltre, la scarsa aderenza delle campane artigianali ha “perfezionato” l’imprevisto. Ho così assistito, per la prima volta, alla gestazione di un magma incandescente, formato di opere liriche, musiche sacre, inni, cori, musica strumentale, in un’unica soluzione che Marco Mantovani, al primo ascolto, ha definito “ghiorghilighetianamente” rossiniana.[1]
[…]

Echi e vibrazioni

La “Stanza della risonanza” è il luogo della quiete, della pausa tra i concerti. La stanza in cui non suona Rossini, bensì risuonano le voci, alcune più e meno famose, di quanti hanno ascoltato la sua musica, dal primo Ottocento a oggi. Voci racchiuse all’interno dei balloons sospesi a un intrico di liane: trasportati fuori del contesto principale, si perdono oltre il colmo del tetto.
La piccola cornice in ferro è un’amplificazione della “nota a margine” che ho spesso usato in formato molto più piccolo per racchiudere le didascalie di fotografie o pitture: un’alternativa poco invasiva e più dialogante, dove la legenda è sorretta dall’opera stessa ed è facile sostituire il testo scritto.
In contrapposizione alle parole, che scendono lungo le liane fluttuanti dal cielo del soffitto al modo di bizzarre “corde simpatiche”, sorge dal pavimento un robusto piedistallo in forma di leggìo, che offre al visitatore un’occasione di lettura “raccolta”, favorita dal silenzio: alcuni brani tratti dalle luminose Divagazioni rossiniane di Alberto Zedda.
Se qui ogni elemento è sospeso alle travi della casa, a ricordare la quinta teatrale, così anche la piccola libreria oscilla appesa al soffitto, evocando, nella forma, un boccascena mobile di fronte alle poltrone di una platea in miniatura. Il visitatore in sosta vi trova, da sfogliare e leggere, una scelta di opere sul Maestro: per avvicinarsi a lui anche tramite la parola di critici e studiosi. Di fianco, un video animato ripercorre i teatri dov’è risuonata la musica di Rossini fino all’ultima dimora parigina, la villa di Passy.

L’ospite invisibile prende congedo

L’ultima stanza – la “Stanza della dispensa” – è il luogo del commiato che si stempera tra le pareti della cucina. Oggetto propulsore è la dispensa, in cui sono conservati otto “ingredienti” scelti dallo stesso Rossini. Il mobile, oltre ai vani per accomodare il vasellame, dispone di otto cassetti entro i quali ho immaginato le prelibatezze, metaforicamente atomizzate da Gioachino e da lui magicamente trasformate in musica. Dopo lunghe ricerche a caccia di pittori coevi del musicista, sono giunto a concludere che conveniva distillare l’interpretazione attraverso la sensibilità di un artista a lui contemporaneo.
Carlo Magini, pittore di nature morte, nato nel 1720 a Fano, mi indica, attraverso la sua Tavola di cucina, il nome di Massimo Pulini che nel 1994 ha interpretato la medesima opera su lastra di rame. Le vivande dipinte da Pulini, costruite sulle vertigini trasparenti e buie dei cassetti, emergono diafane dal fondo, sprovviste di colore, come figure sognate o emesse da una macchina radiogena. Quando il visitatore trae a sé il cassetto, sarà forse lo stesso Rossini a decidere il colore attraverso la musica, se necessario.
La dispensa, costruita sullo scheletro della libreria sospesa nella “Stanza della risonanza”, conserva la medesima idea di palcoscenico – per accedervi si passa attraverso un piccolo sipario – ma con un’accezione quasi mistica, di raccoglimento. Le luci sono attenuate, la sagoma della dispensa, se visitata di sera, si disegna nella penombra, rischiarata solamente dal lucore dei vetri riposti sulle mensole. I brani musicali si assaporano nella loro interezza, uno per volta, aprendo l’uno o l’altro cassetto. Le lastre di ferro zincato, quindi ossidato, che compongono questa cambusa musicale, nonostante la solidità sono scomposte, staccate, instabili, passeggere come un allestimento teatrale.
In questo spazio, l’ospite invisibile, il “pianista (senza rivali) di quarta classe”, Gioachino Rossini, si manifesta un’ultima volta a testimoniare con la musica la sua prodigiosa, tangibile presenza nel museo.

Nota
[1] György Ligeti (1923-2006) è uno dei grandi compositori del Ventesimo secolo, noto anche per le musiche scelte da Stanley Kubrick nei film 2001: Odissea nello spazio, Shining, Eyes Wide Shut.

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Immagini
La Casa di Rossini a Lugo – fotografie di Matteo Monti e Andrea Valentini

Musiche
Gioachino Rossini – “Il barbiere di Siviglia – Ouverture” (Chamber Orchestra of Europe – Claudio Abbado)
Gioachino Rossini – “Sonata a quattro numero 1 in Sol Maggiore – Moderato (Filarmonici del Teatro Comunale di Bologna)
Gioachino Rossini – “Petite Messe solennelle – Kyrie (II)” (Academy of St. Martin in the Fields Chorus – Sir Neville Marriner)
Gioachino Rossini – “La Danza – Tarantella napoletana” (Mario Mariani)

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