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12 Marzo 2007 | Racconti d'autore

Spiagge

Pier Vittorio Tondelli “Un week-end post moderno”

Con “Un weekend postmoderno”, Pier Vittorio Tondelli, scrittore emiliano di Correggio (Reggio Emilia), morto a soli 36 anni nel 1991, ha elaborato il suo “romanzo critico” sugli anni Ottanta, una lunga narrazione “a scenari” che racconta le mode e la musica, le nuove tendenze artistiche e letterarie, le scoperte, gli entusiasmi e la vitalità della provincia italiana in questo decennio.
Vi leggiamo alcune pagine tratte dal capitolo “Rimini come Hollywood”, in cui la vita e i divertimenti nella Riviera romagnola diventano il paradigma dell’Italia vacua e superficiale, spensierata e ottimista, di quegli anni fatali.

Spiagge

Su una striscia di sabbia lunga all’incirca un centinaio di chilome­tri, dai lidi di Comacchio giù giù fino a Cattolica e Gabicce, si sca­tena la carnevalata estiva della riviera romagnola, tornata improvvi­samente in auge quasi quando tutti la ritenevano come morta: un luogo del kitsch strapaesano e provinciale, caotico e assurdo, da la­sciare al popolo delle pensioncine familiari e alle orde di metallur­gici della Baviera. E invece quest’immagine di un’Italia che non si dà mai per vinta, che inventa a ogni stagione simboli di nuove mon­danità per attirare i turisti, che diversifica le sue offerte, dalla vita di spiaggia ai festival del cinema, dalle grandi esposizioni d’arte inter­nazionali al teatro, alla musica, ai megasantuari del divertimento notturno, è esplosa ancora una volta, portando milioni e milioni di presenze sulla sua costa e rendendo quasi un obbligo sociale una passeggiata per Viale Ceccarini a Riccione, un aperitivo al caffè delle Rose di Rimini, un bagno di sole su un qualunque metro qua­drato delle sue spiagge. Spiagge galattiche e detritiche come quelle di Lido Adriano, illuminate, la notte, dalle luci astrali delle raffine­rie di Ravenna e dalle lingue di fuoco che segnalano i pozzi. Spiagge a luci rosse per gay, freakkettoni, nudisti, voyeur e campeg­giatori liberi, al Lido di Classe, fra dune e canneti. Spiagge anni sessanta, molto boom economico a Milano Marittima e Cervia. Spiagge con colonie a Cesenatico, dove i grandi edifici dell’epoca fascista sembrano castelli di sabbia sorti magicamente nel deserto. E poi la spiaggia di Rimini, brulicante e mitica, con il lungomare, 1’acquario dei delfini, il porto, la sagoma di transatlantico del Grand Hotel; la spiaggia di Riccione, dove gli ombrelloni lasciano il posto alle tende orizzontali. Spiagge che improvvisamente si svuotano nelle ore canoniche dei pasti in albergo e che, la notte, diventano una sorta di alcova sotto le stelle, per gli approcci amorosi e sentimentali, come se i nuovi amori, le nuove attrazioni dei corpi dovessero consumarsi sempre li, nascere di giorno sotto un ombrellone e finire la notte al chiaro di luna: come se davanti al mare, al suo cospetto, tutto nascesse e tutto, inevitabilmente, giungesse al proprio eccitante culmine e alla propria fine.

C’è forse un luogo, in questo panorama di sfrenata ricerca del di­vertimento e del piacere, che può raccogliere, simbolicamente, l’es­senza stessa del paesaggio: e questo luogo è un parco di attrazioni che sorge attorno a UD; lago artificiale di fronte all’ aeroporto di Mi~ ramare di Rimini. Si chiama Fiabilandia. Organizzata come una pic­cola Disneyland, simile ai tanti Aquapark o Tivoli W orld della Co­sta del Sol, in Spagna, Fiabilandia mantiene però un carattere tutto italiano nella sua organizzazione interna, un po’ luna park, un po’ sagra di paese e non invece iperprofessionale attrazione, come nel caso degli esemplari spagnoli o dell’ultimo, nuovissimo Aquafan di Riccione.

Si entra attraverso le torri del castello di Cenerentola, torri che vent’ anni fa mi apparivano altissime e svettanti e addirittura rosa, e lo scorso anno invece, al mio ritorno, alte non più di un secondo piano e colar azzurro. Ma chi potrebbe ora stabilirne l’esatta al­tezza? Chi potrebbe con certezza dire se il King Kong che dorme in un capannone, sia effettivamente alto una dozzina di metri e non invece cinquanta o sessanta come si fisserà nella memoria dei ragazzini, al punto che, rivedendolo anni dopo, saranno certissimi che non di quel King Kong si tratti, ma del suo bebè? Ecco, Fiabilandia è questo regno, sorto in piena riviera romagnola, della fan­tasia e dell’ ottica mitica con cui guardiamo le cose, gli oggetti, i paesaggi. Il villaggio cinese, il saloon del Far West, lo Space Shut­tle, le piccole montagne russe percorse da un vagoncino-bruco che attraversa mele giganti e tunnel di vegetazione, il galeone dei bucanieri, la grotta del teschio dei pirati ferocissimi, non sono forse soltanto simboli del nostro immaginario, senza una grandezza reale, una consistenza materiale, se non nello spazio della nostra fantasia?

Fiabilandia, in questo senso, è la riviera adriatica tutta intera: un parco di divertimenti che si definisce in rapporto non tanto ai pae­saggi reali, quanto piuttosto ai paesaggi della nostra immaginazione. E che queste spiagge, questi alberghi, abbiano molto a che fare con la nostra fantasia, con i nostri miti, con la storia stessa dei nostri ul­timi decenni è fuori discussione. Prendiamo il Grand Hotel di Ri­mini, una costruzione massiccia e bianca, che potrebbe far parte della nostra geografia sentimentale, al pari di altri e più vecchi sim­boli nazionali come la Torre di Pisa, il Vesuvio o il Ponte di Rialto. Certamente hanno contribuito a tutto ciò i film di Federico Fellini, quelle scene in cui svariati personaggi spiano con la bocca aperta gli arrivi dei clienti nella hall; le scene in cui Gradisca si dona al prin­cipe in un clima da “cinema dei telefoni bianchi”, quando baro netti, contessine, ballerine ed ereditiere si davano la caccia fra un palcosce­nico, una barca da crociera, un’operetta e un casinò.

Oggi il Grand Hotel è rinnovato, accessoriato, razionalizzato come una fuoriserie. Mantiene inalterato il nome, ma è diventato il simbolo, il doppio contemporaneo di sé: una specie di disincantato fratello maggiore del suo vetusto predecessore. Eppure in certi mo­menti, quando i computer del ricevimento tacciono e il viavai degli anziani ospiti, in maggioranza ebrei anglosassoni, cessa; quando il rombo delle Ferrari parcheggiate davanti alla scalinata d’ingresso si placa e i ragazzini riposano nella fresca penombra delle suite, è an­cora possibile rintracciare il fascino perduto dell’ albergo di gran lusso. Basta allora affondare in una poltrona e tendere le orecchie per afferrare il silenzio che solo il Grand Hotel possiede. Un silen­zio appena incrinato dai tintinnii dei bicchieri di cristallo che i ca­merieri raccolgono dai tavoli, il fruscio di un aspirapolvere sulla moquette, lo sfregare del panno di daino sulle vetrate, le battute sussurrate dai ragazzi di sala in dialetto romagnolo, mentre prepa­rano la grande sala da pranzo, lo “splash” di un solitario tuffo in pi­scina. È proprio in queste incrinature del silenzio, in quel suo arricchirsi di piccoli riverberi quotidiani, che è possibile cogliere il re­spiro del gigante, il suo battito, il lavorio dei suoi nervi distesi. n Grand Hotel, la sua spiaggia privata, il suo parco silenzioso, le sue. ombre …

Poi, la notte, tutto esplode nella discoteca, nel salone da ballo, nelle chiacchiere che gli ospiti intrecciano davanti alle pietanze che

il kosher, appositamente assunto, prepara ortodossamente per gli ospiti di fede israelita. La piacevolezza del mastodonte riminese è proprio in questa sua paradossale facilità di vita e di relazioni che è possibile intrattenere al suo interno. Potete liberamente sedervi agli sgabelli del bar per un aperitivo e gustarvi la vita del grande al. bergo con agio e tranquillità senza, per esempio, il lusso soverchio e antico dell’Hotel des Bains del Lido di Venezia, tutto legni pregiati e cuoi rossi, o l’imbarazzo del finto ammodernamento del Principe di Piemonte di Viareggio.

Ma la riviera adriatica non è soltanto sabbia e mare. Non solo al. berghi. L’entroterra si rivela, anche al viaggiatore distratto, ricco di luoghi di incanto. A pochi chilometri da Rimini, ecco la repubblica di San Marino, il castello di Gradara, legato alla tragica vicenda dantesca di Paolo e Francesca, San Leo, un borgo delizioso, il Mon­tefeltro, con i suoi villaggi e castelli medievali, Morciano di Roma­gna e Montecchio. E Sant’Arcangelo. Qui vive uno fra i nostri poeti e sceneggiatori cinematografici più apprezzati, Tonino Guerra. Qui, dove il mare altro non è che una striscia azzurra all’orizzonte. È proprio dall’alto di questo osservatorio privilegiato, fra le valli del Savio e del Marecchia, la campagna fertile e grassa, la pianura e il mare, che Guerra ha avuto l’ispirazione per comporre una fra le sue ultime più belle poesie. Nient’altro che un sogno, forse, o un se­greto avvertimento: l’approdo, dal mare, di tre chiese misteriose, galleggianti su zattere. Come tre caravelle. E la folla chiassosa del bagnasciuga che guarda stupita e si chiede da dove mai arriveranno. Un gioco? Un nonsense ? Una profezia?

Ma qui tutto può succedere. Che arrivino chiesine dal mare come risorgano i fasti della Roma imperiale nel più sfarzoso stile hollywoodiano. Ecco il posto giusto, il clima giusto, per terminare un weekend in riviera: la Baia Imperiale a Gabicce Monte. Li, arroccata sul promontorio dal quale si può godere uno tra i più ro. tnantici panorami notturni della riviera, colonne immense, gradi­nate, altari, statue di consoli e poeti della Roma classica, bracieri Svettanti lingue di fuoco come a un’olimpiade accolgono il popolo delle vacanze. Schiavi in tunichetta bianca, pretoriani in costume rosso porpora, gladiatori in tenuta da combattimento, proconsoli in corazza e mantello, ancelle discinte con calzari al polpaccio si prendono cura degli ospiti offrendo drink, porchette, panini, birra e frizzantini. Ricostruita interamente sulle rovine della vecchia Baia degli Angeli come una megadiscoteca in stile Satyricon, la nuova Baia si distende su una molteplicità di livelli e attrazioni: discoteche con laser ed effetti speciali, piscine con giochi d’acqua e spettacoli di nuoto acrobatico, fori imperiali, mercatini, lupanari con sedili ricoperti di pelli di leopardo, taverne da suburra, scanni del senato, corridoi soprelevati in stile galattico e futuribile. Qui ci si può divertire scoprendo, per esempio, che le toilette hanno un nome la­tino e la stessa, identica birra acquistata presso lo spaccio degli schiavi costa la metà di quella distribuita, al piano disopra, dai pretoriani. Giovani e scultorei culturisti, ingaggiati dopo severe selezioni, vi accolgono sotto le bianche tende da campo sistemate nel prato all’ingresso. Li vedrete poi, a notte fonda, salire sui tralicci e manovrare i riflettori per illuminare la notte e la folla nell’arena che balla, si diverte, chiacchiera o semplicemente sta a guardare rapita dall’emozione di trovarsi dentro il set cinematografico.

Lettura di Fulvio Redeghieri.

Brano corrente

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