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21 Aprile 2016 | Racconti d'autore

Storia delle storie di Lucia Sarzi

Testo di Laura Artioli tratto dal libro omonimo (Reggio Emilia, corsiero editore, 2014)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Alessia Del Bianco

Alla storia di Lucia Sarzi, attrice e partigiana, abbiamo dedicato a suo tempo una puntata della rubrica “Protagonisti” (www.radioemiliaromagna.it/programmi/protagonisti/lucia-sarzi.aspx). Torniamo a parlarne per dare conto, come merita, della lunga ricerca realizzata della storica e scrittrice Laura Artioli, che ha riportato alla luce questa vicenda in un libro appassionante. Ve ne proponiamo le pagine iniziali.

Lucia Sarzi non ha mai rilasciato interviste e ha scritto di sé una sola volta.
Era l’aprile del 1965, e l’amministrazione provinciale di Reggio Emilia, per celebrare il ventennale della Liberazione, aveva organizzato una giornata di studi dedicata a La donna reggiana nella Resistenza.
Due delle relazioni presentate in quella circostanza – fra le più autorevoli – citano il contributo di Lucia durante i mesi della clandestinità.
Velia Vallini, partigiana, dirigente dei Gruppi di difesa della donna e assessore provinciale, parla della giovane Lucia Sarzi, attrice in un povero teatrino vagante che con le sue recite seminerà ideali di speranza e di fede nella libertà.
Laura Polizzi, partigiana e prima presidente provinciale dei Gruppi di difesa della donna, ricorda a sua volta una certa Lucia che abitava a Campegine, anche se non era di Campegine. Si sa che era un saltimbanco o meglio, forse una commediante, non so. Era con un carro di guitti e questa famiglia svolgeva da sola attività antifascista anche con la recita, riconoscendo subito dopo la grande influenza che l’esempio di Lucia aveva esercitato sulle sue scelte e sulla maturazione della sua coscienza politica.
Al convegno però Lucia – che aveva all’epoca quarantacinque anni e viveva in un paese della pianura modenese con il marito e i due figli – non era presente.
Forse non stava bene. Aveva subito da qualche anno un grave intervento chirurgico, e sarebbe morta di cancro nel febbraio 1968.
O forse non l’avevano invitata, come mi ha suggerito nel settembre 2006 Maria Cervi, figlia di Antenore, uno dei sette fratelli fucilati dai fascisti e assurti a simbolo della Resistenza reggiana; Lucia non c’era, a dire di Maria, per volontà deliberata degli organizzatori oppure perché si erano davvero dimenticati di lei. Che manda, a lavori conclusi, un contributo scritto, l’unico che si conosca, pubblicato poi in appendice agli atti.
Si intitola Dal teatro alla Resistenza, copre gli anni fra il 1939 e il 1945 e, va da sé, risulta altrettanto significativo per quanto passa sotto silenzio che per quanto decide di raccontare.

L’autorappresentazione che Lucia mette in campo nel 1965 può essere letta, fra le righe, come una finestra sullo stato di avanzamento di quella imponente opera collettiva al calor bianco alla quale lei stessa partecipa. La costruzione cioè della memoria resistenziale – delicatissima nelle contrade emiliane –, la filatura dei giudizi politici, la ricucitura dolorosa degli strappi e delle ferite, il consolidarsi dei miti e delle rimozioni.
Ma serve anche a ristabilire con fermezza la propria immagine pubblica e a rivendicare una parte che non può riconoscersi solo nel povero teatrino vagante, che sente sminuita nei panni del saltimbanco e delegittimata nel sospetto di solitudine che circonda l’azione cospirativa della sua famiglia.
L’urgenza era tutta politica, a metà degli anni Sessanta, e il privato ancora non era stato ricompreso.
Anche se Lucia aveva profuso senza risparmio, durante i mesi della Resistenza, tutte le energie e le risorse che le derivavano dal suo essere donna e attrice – in una sorta di doppia differenza che resterà il suo segno più caratteristico –, non c’è traccia, nelle sue parole, delle passioni vitali che la muovono. Di quella specie di febbre che la gettava giorno e notte per le strade della bassa cremonese, mantovana, reggiana e parmense in bicicletta e in corriera fra il dicembre del 1943 e le prime settimane del 1944, come ricordano Teresina Mori e Olga Federici, che avevano più volte nascosto in casa propria a Cogozzo di Viadana la famiglia Sarzi.
Niente si trova dei sussulti e degli snodi che determinano la sua vita affettiva nei mesi cruciali della Resistenza.
E neppure di quella faglia emozionale che l’incontro con Anatolij Tarassov, il partigiano russo con cui aveva condiviso le vicissitudini della banda Cervi e che era tornato in Italia dopo vent’anni, avrebbe fatto affiorare con tale forza da far dire a suo figlio Raul: fu una delle poche volte che vidi mia madre in preda alla commozione, all’emozione.

Dopo la liberazione le partigiane, è noto, si raccontano come se fossero partigiani. Il femminile suscita diffidenza, destabilizza.
Ma Lucia confidava, forse, che in futuro tutta la sua vicenda umana potesse essere proclamata e testimoniata senza filtri e senza reticenze da qualcuno che le stava crescendo vicino, la guardava vivere nella sua interezza ed era nato dopo la guerra, dopo i giorni sul ricordo dei quali lo spirito di appartenenza esigeva che si esercitasse il massimo controllo.
È ancora Maria Cervi, che diventata adulta le era stata amica carissima, a dirmi – nel settembre 2006 – che Lucia avrebbe voluto affidare idealmente al figlio primogenito Ilic il compito di scrivere la sua storia.
Dunque, la sua speranza era forse che il quadro potesse essere ricomposto. Che tutto quanto era stato sottaciuto venisse alla luce.
Anche lo scorrere ordinario delle sue giornate, fuori dai tempi eroici, che non avrebbe mai del tutto colmato lo scarto rispetto alla normalità degli altri.
Era una donna di teatro, Lucia. Una romantica, la definiscono in circostanze diverse Tarassov e Maria Cervi. Amava l’opera, i comizi, la folla, dice sua sorella Gigliola. Non potevano non piacerle le storie piene, a tinte forti.
Eppure – è solo uno dei molti paradossi di questa vicenda – Lucia, di cui tutti ricordano come anche lontano dalla scena sapesse irradiare parole, non parlava volentieri di sé.
Le testimonianze riguardo alla sua riservatezza sono molte.
Era una ragazza che non diceva mai niente delle sue cose personali, dichiarano le sue ospiti di Cogozzo. Sul suo essere molto introversa anche dopo che erano venute meno le necessità cospirative insiste il cugino Rubes Triva.
Una sola volta, dice Maria Cervi, Lucia si lascia andare con lei al dolore durante gli ultimi mesi della malattia.
Suo figlio Raul ricorda che della sua esperienza di partigiana raccontava solo gli aneddoti, le parti divertenti. E in un colloquio telefonico che abbiamo avuto nell’ottobre 2006 mi ha rivelato che gli piacerebbe capire chi era davvero sua madre.

Questo mio lavoro su Lucia è cominciato diversi anni fa.
A partire dalla tesi di laurea di Maria Giovanna Vannini, discussa a Bologna nell’anno accademico 1999/2000, ho cercato di esplorare nuove fonti documentarie, ho messo insieme quanto era stato già raccolto e pubblicato, ho incontrato alcuni testimoni dei molti che avevano depositato negli anni le loro memorie, sono andata a vedere i luoghi che ho giudicato più significativi.
Il materiale che ho radunato è cospicuo.
Ma si ammucchia – com’era facile prevedere – negli anni fra il 1939 e il 1946.
Per quanto mi fossi prefissa di strappare più che potevo Lucia dal fondale un po’ irrigidito della Resistenza, è soprattutto lì che si concentra il suo paradigma esistenziale riconosciuto.
Come se, affievolite strada facendo le diffidenze e le polemiche del dopoguerra, il ruolo di antifascista militante e di partigiana avesse soppiantato quello di Tosca nella gerarchia delle sue migliori interpretazioni, agli occhi del pubblico che ancora si occupa di queste cose.
Gli anni più documentati della vita di Lucia sono dunque quelli della sua giovinezza, fra i diciannove e i ventisei, ai tempi della cospirazione contro il regime e della lotta clandestina, quando ci si spostava cancellando il più possibile le tracce dietro di sé.
Ecco un altro paradosso: a testimoniare i movimenti di Lucia negli anni più comprovati della sua esistenza restano quasi solo voci, racconti diretti e per sentito dire, ricordi di poco successivi oppure depositati e rivisitati nei decenni. Memorie.
Di alcuni episodi salienti della sua vicenda esistono decine di versioni.
I Sarzi recitano e non stanno mai fermi, si spostano per lavoro e per militanza politica, si esibiscono per nascondersi.
Vita vissuta e rappresentata si sovrappongono in famiglia con una certa disinvoltura. La capacità di saltare secondo necessità da un piano all’altro è per loro uno strumento del mestiere: perché il teatro ti aiuta, mi ha ribadito sorridendo Gigliola nel gennaio 2007.
I primi a muovere le acque intorno a Lucia sono i componenti del suo gruppo famigliare.
Per amore, per natura e qualche volta per necessità –quando la differenza dei Sarzi verrà pesata e giudicata senza concedere attenuanti –, i loro racconti tendono a tratteggiare una Lucia fulgida e mirabolante.

A un certo punto – che è difficile da definire sul piano cronologico, ma si colloca su quello simbolico come l’inizio del crescendo –, per il tramite di Lucia il percorso dei Sarzi incrocia quello dei Cervi, e le due famiglie vivono da lì in poi in stretta correlazione gli eventi che condurranno all’epilogo tragico del dicembre 1943.
Lucia e i suoi entrano allora di slancio, a pieno titolo, nella bolla dei Cervi.
La cui vicenda, come scrive lo storico Antonio Canovi, è divenuta oggetto, negli anni, di fortissime pulsioni – etiche, generazionali, ideologiche –, sino a sedimentare una concrezione simbolica estremamente sfaccettata.
Esemplari e controversi – ancora nel settembre 2006 Maria sosteneva che la verità sulla sua famiglia non era stata compiutamente detta –, i sette fratelli martiri e il loro padre danno origine a un mito popolare e politico dilagante, dalle implicazioni multiformi, dentro al quale anche i Sarzi trovano una collocazione non secondaria.
In questo modo, più notizie si affollano intorno alla figura di Lucia, più lei si allontana.
Accostati e sovrapposti, i racconti che la riguardano creano una cortina fitta di vero, di verosimile e di impossibile. Un gioco di rimandi, rispecchiamenti e depistaggi che assomiglia molto, ancora una volta, al teatro. O alle favole.
Chiunque parli di lei, familiari, amici, compagni di viaggio, conoscenti, contribuisce ad alimentare la sua leggenda. A ogni dettaglio che si aggiunge, il disegno si sgrana e aumenta la zona dell’indeterminato.
Una nebulosa che finisce per prendere dentro anche i dati di realtà più incontrovertibili.

Al convegno organizzato dall’UDI di Mantova nel 1965 per celebrare il contributo alla Resistenza delle donne di quella provincia, Bianca Fiori Verona la inserisce nell’elenco come la viadanese Lucia Sarzi.
La breve pubblicazione con cui, nel 1988, l’amministrazione comunale di Camposanto, il suo ultimo paese di residenza, ha voluto ricordare Lucia nel ventennale della sua scomparsa, sbaglia sia la data che il luogo di nascita.
Nel 1975 invece è il Comune di Acquanegra sul Chiese, in cui Lucia era venuta al mondo, a deliberare l’intitolazione di una strada alla concittadina illustre. Ho visto e fotografato il cartello che tuttora recita via Lucia Sarzi martire della libertà.
Invece Lucia era morta di malattia all’ospedale di Modena ventitré anni dopo la Liberazione.
Due sere prima della sua scomparsa, era stato presentato a Reggio Emilia in prima nazionale il film di Gianni Puccini I sette fratelli Cervi, nel quale Lisa Gastoni interpreta il ruolo di Lucia, una delle due protagoniste principali.
Prima di morire, lei stessa aveva collaborato come poteva alla realizzazione di questa pellicola, che proietta per la prima volta la sua figura a livello nazionale.
Un film nel quale, una volta di più, nessuno la riconoscerà.

Credo che la verità delle persone sia inattingibile.
L’impresa di scrivere la storia di Lucia mi sembra superiore alle mie forze.
Ma proverò a ricostruire la storia delle sue storie.

Brano corrente

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