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30 Agosto 2012 | Racconti d'autore

Canti di Castelvecchio

Di Giovanni Pascoli. Appendice: Diario autunnale (1907).

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

30 agosto 2012

Qualche settimana fa abbiamo parlato di Giovanni Pascoli nella rubrica “Protagonisti”. Quest’anno ricorre il centenario della morte, avvenuta a Bologna, del grande poeta romagnolo. Oggi vogliamo leggervi le bellissime liriche del Diario autunnale, scritte nel 1907 a Bologna e aggiunte in appendice alla quinta edizione, del 1910, dei Canti di Castelvecchio, la sua opera più nota, dedicata alla madre. La maggior parte delle poesie dei Canti fu composta tra il 1896 e il 1903. Iniziato con Myricae, continua in questa raccolta il dialogo del poeta con la madre: in una lirica, La voce, Pascoli ricorda che fu proprio lei a venirgli in aiuto quando stava per suicidarsi buttandosi giù dal ponte sul fiume Reno, vicino a Bologna.
L’uso insuperabile della rima e la costruzione perfetta della strofa rendono i Canti di Castelvecchio uno dei capolavori assoluti della letteratura italiana, secondi, forse, solo ai Canti di Giacomo Leopardi e al livello dell’Alcyone di Gabriele D’Annunzio, pubblicato in quegli stessi anni (1903).
Unica consolazione degli esseri umani, la poesia evoca un luogo – la campagna, dove la natura ha il suo corso – sottratto alle brutture e al dolore del mondo, in cui contemplare l’originaria innocenza che ci è stata tolta con la violenza.

Diario autunnale (1907)

I
Bologna, 1 novembre.

Che fanno là, presso la muta altana,
i crisantemi, i nostri fior, che fanno?
Oh! stanno là, con la beltà lor vana,
a capo chino, lagrimando, stanno.
Pensano che quest’anno sei lontana,
lagrimano che non ci sei quest’anno.
Non torna più! mormora la campana…
Ma le cincie: Sì! Sì! Ritorneranno!

II
Bologna, 2 novembre.

Per il viale, neri lunghi stormi,
facendo tutto a man a man più fosco,
passano: preti, nella nebbia informi,
che vanno in riga a San Michele in Bosco.
Vanno. Tra loro parlano di morte.
Cadono sopra loro foglie morte.
Sono con loro morte foglie sole.
Vanno a guardare l’agonia del sole.

III

Torre di San Mauro.
Notte dal 9 al 10 novembre.

Dormii sopra la chiesa della Torre.
Cantar, la notte, udii soave e piano.
Udii, tra sonno e sonno, voci e passi,
e tintinnire il campanello d’oro,
ed un fruscìo di pii bisbigli bassi,
ed un ronzìo d’alte preghiere in coro,
ed una gloria d’organo canoro,
che dileguava a sospirar lontano.
A sospirar così soave e piano!
Era una messa. Santo! Santo! Santo!
Ma eran voci morte che cantare
udii la notte fino sul mattino:
un morto prete curvo su l’altare,
un bimbo morto ritto sul gradino,
con su le spalle il suo lenzuol di lino
in che l’avvolse la sua madre in pianto.
Era la messa. Santo! Santo! Santo!
Ma sul mattino ecco garrir gli uccelli:
– No: era il vento quel ronzìo che udisti,
erano pioggia quei bisbigli bassi.
Frusciavan alto i vecchi abeti tristi,
brusivan cupo i tristi vecchi tassi.
Erano foglie, foglie secche, i passi,
cadute ai vecchi tigli, ai vecchi ornelli. –
Così garrendo mi dicean gli uccelli.
E i vecchi alberi: – Il tempo, come corre!
Quel campanello era il tuo vecchio cuore,
in cui battean vecchie memorie care;
ma le altre voci, fievoli o sonore,
di noi, non le potevi ricordare…
Siamo di dopo!… A que’ tuoi giorni, pare,
tutto era a prato avanti quella Torre. –

IV

Bologna, 14 novembre.

La luna par che adagio si avvicini
a San Michele, e guardi nel Convento.
No: non ci sono frati, ma bambini…
fuori del nido. Ella ristà tra il vento.
Han l’ali rotte… Ma nei letti bianchi
dormono in lunghe file, come stanchi;
stanchi di voli, ora sognati almeno,
che poi la madre li raccoglie al seno.
La luna ascolta. Non li vuol destare
ma vuol vedere; e se ne va, ma sale.
Illuminare deve i monti e il mare,
ma un raggio manda anche sul lor guanciale.
E sale il cielo, l’alto cielo buono;
cerca le stelle in cielo: dove sono?…
e corre e cerca: dove mai son elle?…
Vuol dir la cosa alle virginee stelle.

V

Bologna, 20 novembre.

Il ponte sull’Aposa

Aposa trista! Il povero al tuo ponte
sosta, e non altri. Siede sul sedile,
né guarda: non a valle non a monte:
non alle torri lunghe e sdutte, che oggi
sfumano in grigio, non a quelle file
d’alti cipressi tra i castagni roggi:
ascolta, a capo chino, ad occhi bassi,
te che laggiù brontoli cupa, e passi.
A te vengono gli uomini infelici,
Aposa trista! E nella solitaria
notte a qualcuno tristi cose dici.
T’ascolta a lungo. E poi, quando una foglia
secca di platano, a un brivido d’aria,
sembra un fruscìo di gonna su la soglia:
ecco, quell’uomo non è più: dirupa…
tu passi, e dopo un po’ brontoli cupa.
Aposa trista! E l’Aposa risponde:
– Vien l’usignolo, a marzo, tra le acace!
Al gorgoglìo delle mie picciole onde
sta prima attento, a lungo impara, e tace.
Ma poi di canto m’empie le due sponde;
e il canto suo già mio singulto fu.
Canta al suo nido, al nido suo di fronde,
di quelle fronde che cadono giù… –

VI

Bologna, 12 decembre.

Narcissi

– Narcissi d’oro, candidi narcissi,
voi che corona avete oltre corolla:
per cuna aveste un vaso, e non la zolla;
terriccio a letto, e non la madre terra.
Per gli altri il freddo, ma per voi la serra;
morivan gli altri, e voi veniste in boccia.
Ora ogni foglia stride e s’accartoccia;
e voi fiorite, lieti, belli, e soli. –
– Oh! i primi caldi dopo il verno, e i voli
delle farfalle, e i canti dei fringuelli!
Al sole uscir con tutti i suoi fratelli,
odorar tutti al cominciar d’aprile!
al vento, all’acqua, a gruppi a macchie a file,
in tanti, in tanti, da sfiorire in pace!
nel prato, con le altr’erbe, fin che piace
alla falce che agguaglia erbe e narcissi. –

VII

Castelvecchio, 15 decembre.

Nell’orto

A casa mia giunto sul vespro alfine,
io vedo un sogno ch’è pur cosa vera.
I quattro peri che piantai nell’orto
a circondar la conca d’arenaria,
vedo fioriti! E il cielo è bigio e smorto,
la nebbia fuma, fredda punge l’aria:
la neve è su la Pania solitaria…
– Allora, a marzo, o che lassù non c’era? –
E tutto cade, tutto va, si perde;
il fiume va come una folla in pianto.
La quercia ha il musco e l’edera, di verde:
sui verdi rami ha un suo gran rosso manto.
Sol foglie secche, e i vostri fior soltanto!…
– O non era così di primavera? –
Marzo a decembre, alba somiglia a sera!
Eppure altro è il principio, altro la fine.
Vedo tremare un poco le fogline
delle corolle al vento che le sfiora.
Avete il tempo, arbusti miei, sbagliato:
ora non viene la dolciura in cielo.
Non si prepara a rifiorire il prato:
viene la brina e mangia ogni suo stelo.
Viene la brina, ed anche viene il gelo…
– E così dunque non accadde allora? –
Ma il monte allora ritornò turchino,
e fiorirono i peschi e gli albicocchi.
Era fiorito il mandorlo e il susino,
metteva il melo foglie e fiori a gli occhi.
Fiori per tutto, a spighe, a mazzi, a fiocchi…
– A noi, col gelo li strinò l’aurora! –
Poveri arbusti! E si riprovan ora.
Oh! videro fiorire anche le spine!…

VIII

Castelvecchio, 21 decembre.

Io sento il suono dell’antica avena
su l’alba ancora scialba ma serena.
Ed ecco il monte trascolora in rosa,
splendono i vetri a tutte le finestre.
E gente va, che vuol saper la cosa,
per le callaie e per le vie maestre.
Va dove il placido organo silvestre
canta l’antica sacra cantilena.
E` un pastor bianco al pari della neve,
che non ha casa ed anco all’otre beve.
Dice: – Era il sole per fuggir dal cielo.
Oggi s’è fermo e tornerà pian piano.
Piccolo è il seme, ma fa lungo stelo;
il seme è poco, ma fa tanto grano:
ed il buon Sole per un anno sano
semina, o genti, il giorno suo più breve. –

Brano corrente

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