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27 Ottobre 2016 | Racconti d'autore

Il silenzio di Adele

Racconto di Anna Kauber tratto dal libro “Le vie dei campi” (Vezza d’Alba, Maestri di Giardino Editori, 2014)

A cura di Vittorio Ferorelli

Per la “Giornata mondiale del patrimonio audiovisivo” vi proponiamo il ritratto scritto di una donna di cui abbiamo già conosciuto la voce grazie al video che le ha dedicato Anna Kauber, architetto e regista parmense: il suo nome è Adele Previti. Di recente Anna Kauber si è impegnata in un altro progetto di documentazione audiovisiva dedicato alle donne e al loro lavoro: “Pastore: femminile, plurale”.

Ad Adele non è mai venuto in mente di chiedere prestiti o finanziamenti pubblici: fa parte (come Angelo e Mirella o le sorelle Vezzosi) di coloro che sanno di dover fare da sé, ché tanto nessuno ti aiuta, e la sopravvivenza dipende dalla sola risposta della terra alla tua fatica.
Adele ha 74 anni e una piccola stalla con fienile dei primi del Novecento, adiacente all’unico complesso, suddiviso in casa colonica e casa padronale, costruito sui terreni che appartenevano alla sua famiglia. Siamo a Vizzola, piccola frazione lungo la Strada Romea di Monte Bardone, una via dei pellegrini i quali, dalle strade transalpine, attraversavano la Val Taro, superavano l’Appennino al passo della Cisa e scendevano in Liguria.
Il podere è a due passi dalla pieve medievale ricostruita nel Settecento, con l’ulivo centenario segnalato dai Patriarchi sul lato. Conosco questo posto fin da ragazza, perché da una quarantina d’anni la vecchia canonica viene affittata da una famiglia di cari amici. Il paesaggio che si adagia sul rilievo collinare attorno alla pieve è di rara bellezza, tuttora scandito dal disegno originale del sistema colturale antico. Se ne vedono porzioni integre: la sequenza di aceri campestri sui campi ondulati; la tessitura minuta delle parcelle bordate da linee continue di siepi; le alberature da frutto, i filari di vite allungati sui coltivi.
Tutto l’insieme presenta un equilibrio e una misura che non sfuggono neanche ai profani: credo che tutti percepiscano istintivamente l’incanto di questo pianorino benedetto.

La stalla è una piccola arca. Pazienza se non ci sono tutte le razze: l’odore arcaico del letame fresco è un attributo universale. Sento il ruminare, gli schiocchi della coda che scaccia le mosche, qualche vacca che si alza, il tonfo della merda sul pavimento di vecchie pianelle, lo scroscio dell’orina fumante. Il solito corredo sonoro. Sono in tante, tantissime le rondini. Ecco i nidi, numerosi, attaccati alle travi o all’abaco delle vecchie colonne rotonde. I garriti in crescendo o in diminuendo segnalano l’entrata e l’uscita delle care bestiole, incuranti di Adele, nell’instancabile andirivieni di chi ha il compito impresso nei geni di badare alla prole.
Come lungo la Via Francigena (che passasse con esattezza da qui?), molti altri viandanti affollano ogni giorno la stalla. Cani e moltissimi gatti, questi ultimi oltremodo sussiegosi, come se contaminare le proprie regali zampette su quel pavimento plebeo non si addicesse al loro superiore lignaggio. In ultimo, una moltitudine di insetti, un’abbondanza tale che mi chiedo se Noè non abbia sbagliato i suoi calcoli e, nell’ansia della partenza, non abbia esagerato un po’ troppo con quella fastidiosa classe di viventi.
La stalla è infusa di mito arcaico, rifugio dopo il diluvio, bagliore di un mondo perduto senza memoria, né luogo, né tempo. Con la carretta del letame entra ed esce anche Adele, che pulisce prima di mungere: e poi di nuovo, su e giù, con le prese di fieno fresco infilate nel forcone, da distribuire con cura nella mangiatoia. Ora prevale il profumo del fieno, piacevole aroma per me ed evidente leccornia per loro, le sue vacche, che la seguono sempre con gli occhi. Sono lucide e linde, musi ben fatti, occhi nasi orecchie bellissimi. Mentre mi guardano di sfuggita – non sono abituate alle visite – mi convinco che ne abbiano coscienza. La retorica del pio bove qui non funziona: nella loro espressione mi pare di cogliere infatti la compiaciuta manifestazione di un’amabile vanità.

Dai nonni, notabili di Fornovo, la famiglia di Adele eredita un appartamento in città e una parte dei fondi, il fiore all’occhiello. I terreni erano a Vizzola, abbandonata negli anni Sessanta “perché l’agricoltura non rendeva” e i giovani preferivano andare in fabbrica. Adele e la madre quelle proprietà non vogliono venderle, per non fare morire la terra, così decidono di trasferirsi lì. Lei ha 24 anni, è maestra di scuola materna e molto felice di andare in campagna. Con il suo stipendio mette a posto la casa e compra le macchine per l’azienda (“quando siamo arrivate aravano ancora con i buoi”). Danno da coltivare la terra e lei e la mamma si occupano della stalla. Comprano due vacche, poi quattro; mettono in piedi un allevamento che allora era medio e oggi è considerato di piccole dimensioni.
Nel frattempo Adele continua a lavorare, per scelta e perché il suo stipendio è necessario: l’agricoltura non rende, appunto. Per trentasei anni ha iniziato la sua giornata alle 4.30, ha lavorato nella stalla fino alle 7, si è cambiata di corsa e si è precipitata in paese a prendere la corriera che la portava a scuola. Nel tardo pomeriggio, al ritorno, stessa storia. Iniziava a falciare il fieno da mettere nella barchessa, e poi dentro la stalla a pulire, a dare da mangiare e a mungere, fino a sera inoltrata.

La vita di Adele adesso è un lusso, ha solo la stalla e lei non sente mai la fatica. “Non lo so, ma la mia forza è inesauribile”, dice. Magra, ossuta, balla dentro i pantaloni da lavoro, tenuti su solo dalla cintura stretta in vita. Quando è nella stalla porta sempre un fazzoletto di cotone in testa, tipo tirolese, anche d’inverno. Cammina decisa e lavora con vigore, senza sosta, serena e dignitosa. Non ha una provenienza contadina, ha studiato e si vede.
Tuttavia il suo rapporto con gli animali – tutti, comprese le bisce che sposta facendole attorcigliare sulla forca – e i modi del loro accudimento rivelano una speciale empatia. Le bestie hanno una dignità meravigliosa – mi racconta – soprattutto quando sentono arrivare la fine, senza smaniare, senza agitarsi. Non come noi. Ha visto i suoi cani, i gatti e le vacche comporsi calmi e rassegnati: si sdraiano su un fianco, allungano la coda e, in pace, aspettano di morire. Ha pianto per tanti animali, per le vacche e per Billo – il cane amatissimo – e piange ancora, anche davanti a me. In tutti questi anni ha visto però anche tante nascite. Facendo quasi sempre tutto da sola, Adele è stata ostetrica di chissà quante madri e madrina di tanti vitelli. “Io di figli non ne ho avuti” – mi dice – “ma nei miei anni di scuola materna, oltre ai vitelli, ho tirato su anche tanti bambini”.
Lei preferisce la stalla ai campi, perché con gli animali comunica. Il desiderio di conoscenza è reciproco: le vacche imparano a riconoscere la sua voce e ne intuiscono le intenzioni. Adele lo sa, le bestie amano la vicinanza dell’uomo. La chiamano, la seguono con gli occhi, la leccano. Non sono quelle tonte che dicono, le sue bestie capiscono quando pensa di andarsene, e muggiscono, voltano tutte insieme il muso e la guardano, come a chiederle di restare. Insomma, a questo punto è chiaro che non le piace coltivare, “come si può comunicare con l’erba?”.

Era la notte di San Lorenzo e aspettavamo le stelle cadenti. Avevo quattordici anni e non sarebbe bastato il collasso dell’intera volta celeste per esaurire la mia lunga lista di speranze, di sogni e di desideri. Insieme a mia sorella Paola, sdraiate sul prato davanti alla chiesa, ci stavamo comunque provando. Avevamo tutto il tempo a disposizione, in quanto ospiti degli amici a Vizzola. Ho un ricordo indimenticabile di quel cielo e del suo corredo di stelle, dell’aria profumata dei campi a riposo, giaciglio del mondo avvolto dal silenzio denso della vita notturna. Curiosamente non trovo tuttavia più alcuna traccia dei desideri e dei pensieri espressi in quella prodigiosa notte d’estate: resta solo la vaga eco del nostro intimo, fraterno parlottare sommesso.
Ripensandoci ora, cerco di immaginare Adele, giovane donna di trentasette anni che abitava a due passi da noi. Chissà se pure lei stava guardando il cielo. La cerco in quella notte silenziosa, mentre tutte le vacche riposano… o forse qualcuna è insonne e rumina svogliata, pensosa, cercando di non disturbare le altre. Forse Adele dormiva (si sveglia sempre all’alba) e il sonno avrà celato i suoi desideri segreti a tutti, comprese le stelle.

All’interno della stalla il tempo si ferma. Il trascorrere della giornata è segnalato solo dal cambio di intensità della luce. In giugno la tonalità del tardo pomeriggio, qui a Vizzola, con quest’aria tersa e satura di verde, è pura magia. Tutto il giorno la stalla rimane in penombra, illuminata dalla luce banale del sole estivo, sempre alto nel cielo. Ma verso sera qualcosa inizia a cambiare, il giro di trottola quotidiano della Terra, rigoroso e puntuale, ci sta regalando ancora una volta il tramonto.
I raggi si sono abbassati, la luce è più calda quando intraprende la strada verso le finestrelle squadrate. Finché uno di loro, più obliquo degli altri, riesce a entrare dalla piccola feritoia nel muro di mattoni. È una rivelazione: la lama di luce taglia di netto il lato della stalla, sfiora la mangiatoia di legno e si ferma sulla canaletta di scolo a pavimento. Subito prima c’è l’invisibile, da qui puoi vedere… Fa luccicare la paglia dorata per terra, simile a un gioiello di filigrana: nel vortice di quella ferita di luce danzano le particelle di polvere, specchietti appesi alla giostra fatata del Circo del Sole.

Adele non ha mai amato la città e tuttora quando è costretta ad andarci (“quante carte, quanti certificati, c’è da girare come se avessi la Barilla”) si sente spaesata, sola, mentre in campagna ha sempre gente attorno e poi c’è il casaro con cui chiacchierare, che passa due volte al giorno a ritirare il latte. Nelle stalle moderne adesso non si tocca più niente con le mani, Adele invece usa ancora i secchi, che poi svuota uno a uno nel bidone. Anche se non hanno più un nome, ma solo un numero, come nei lager, lei conosce molto bene le sue vacche. Il momento più bello è quando si munge, c’è da pulire la mammella e massaggiare il capezzolo, si è molto vicini all’animale.
Davanti alla cucina c’è un grosso albero: pullula di cince, aggraziate e divertenti. Si può anche passare il tempo guardando dalla finestra, ore a osservare i fiorellini e gli uccelli, soprattutto con la brutta stagione. Sul davanzale Adele mette semi di girasole e le cince arrivano, circospette. Prendono il seme con le zampette, vanno subito al sicuro su un ramo più basso e pian piano lo aprono col becco e mangiano la polpa a pezzettini. Ogni inverno viene a trovarla il pettirosso, forse il suo preferito, che è molto superbo e non mangia mai con gli altri, ma “è d’un bello, d’un bello… quest’anno era così paffuto”. E le rondini, mai così numerose, di lei non hanno paura quando portano il cibo nel nido.
Finita la giornata di lavoro, io e Adele ci sediamo sulla panca in muratura sul fianco della casa. Il tramonto è avanzato e dietro la stalla il sole sta scomparendo oltre le alture. Nel frammento visibile dalla nostra posizione, strati successivi di velature trasparenti intensificano le ombre del paesaggio. Quietamente si sovrappongono, una pennellata dopo l’altra, fino alla copertura totale, al definitivo, atteso spegnimento notturno. Il tempo è sospeso, tutto è immobile; le piante, noi, le vacche e tutte le altre creature aspettiamo concentrati e assorti che si compia l’evento. Solo le cicale, insensibili alla sacralità del momento, non si premurano di abbassare il volume, lungi da loro l’idea di cedere il podio ai grandi rivali di sempre, i grilli notturni. “Che pace, eh, qui? Che silenzio. Parla anche il silenzio”.

[Per ascoltare l’audio della videointervista dedicata ad Adele Previti da Anna Kauber per la serie “Ritratti di donna e di terra”: www.radioemiliaromagna.it/programmi/protagonisti/adele-previti.aspx]
 

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