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6 Agosto 2020 | Racconti d'autore

Un eroe moderno

Testo tratto dal libro omonimo di Gianni Celati (Macerata, Quodlibet, 2017)

Vittorio Ferorelli

Pucci, Bordignoni, Fregatti, Barattieri… sono i “pascolanti”, gli adolescenti inquieti e divaganti di cui narra Gianni Celati. Aspettando di diventare “grandi” vanno in giro senza mèta: non sanno mai dove andare, comunque sia ci vanno. Tra di loro c’è Zoffi, uno “che stava a riflettere su qualsiasi cosa finché ci trovava del marcio”, e questa è la sua storia. Ringraziamo per la lettura Alessandra Ambrogi e l’associazione “Legg’io”.

Zoffi era un ragazzo molto studioso e di poche parole, sempre preso dai suoi pensieri. Mi faceva colpo da tanto che era serio in tutto quello che diceva. Portava una giacchetta modesta, la camicia abbottonata al collo senza cravatta, e teneva gli occhi un po’ socchiusi nel guardarti. Sua madre era l’opposto: donna imponente con la testa sempre dritta come per superbia, e l’aria di comandare sul mondo intero che aveva attorno, veniva da una famiglia dove tutti avevano dei nomi della mitologia greca. Così lei era la signora Giunone, figlia d’un certo Saturno, vedova di bell’aspetto con una tabaccheria vicino alle mura.
Ora mi sta spuntando in mente la visione d’un funerale sulla strada del camposanto, con in testa il carro bardato di nero e tirato da due cavalli. Vicino al carro vedo Zoffi con sua madre in lutto, seguito da altri che per il momento mi restano sconosciuti. Poi vengono i suoi amici, tra cui il sottoscritto quindicenne e i suoi compagni di scuola Fregatti e Barattieri. C’è anche il professor Amos, trasandato nel vestiario, che insegnava al nostro liceo, ma poi l’avevano mandato via come alcolizzato, e ora bazzicava la nostra comitiva studentesca. In fondo alla processione spuntano altri personaggi in gruppo, che erano amici del padre di Zoffi, qui portato al camposanto. Dunque questa visione si colloca in un lontano autunno, quando il mio amico ha dovuto lasciare gli studi per occuparsi della tabaccheria di suo padre morto.
Zoffi lo ricordo bene, perché volevo scrivere un romanzo con un personaggio ispirato a lui come eroe moderno. Infatti lui non era andato come me al liceo classico a imparare il greco e il latino; aveva fatto la scuola tecnica con apertura alle idee tecniche, e questo è un altro paio di maniche rispetto agli studi classici. Però il romanzo che volevo scrivere non riuscivo a mandarlo avanti per scarsa ispirazione. Avevo scritto il primo capitolo, dove Zoffi restava sempre fermo a un mattino in cui si svegliava e guardava fuori dalla finestra, e dopo non sapevo più cosa scrivere. Ma questo non c’entra con la sua storia, che comincia quando ha dovuto abbandonare la scuola per badare alla tabaccheria. Ritrovarsi a vendere sigarette da mattina a sera deve essere stato un brutto colpo; e per quello, credo, è diventato un gran pensieroso che stava a riflettere su qualsiasi cosa finché ci trovava del marcio.

Zoffi da giovane vedeva là fuori case, gente per le strade, automobili e nuvole in cielo; poi appena fuori dalle mura vedeva altre strade, campi, alberi, campagne. E il fatto che riusciva a capire con le sue meditazioni era questo: che lui non c’entrava niente con quello che vedeva, né con i discorsi che sentiva, nella tabaccheria, o con sua madre, o in giro per la città. «Io non c’entro con questa tabaccheria, non c’entro con quei discorsi, non c’entro con mia madre, non c’entro con niente», questo era il suo pensiero acerbo ma già sicuro in materia. Non perché volesse così, ma perché disgraziatamente era proprio così.
La scoperta che uno è separato da tutto e chiuso nei suoi pensieri che lo rendono più separato che mai, è già una cosa che lascia di stucco. Ma si aggiunga il fatto di scoprire che gli altri vanno a fare la spesa, sbrigano i loro affari, si corteggiano, si amano, si lasciano, s’imbrogliano, si scannano, muoiono, senza che gli venga mai in mente di essere separati da tutto il resto. Non parliamo dei pensionati del quartiere, che venivano nella sua tabaccheria a far delle chiacchiere, chiacchiere di politica o chiacchiere sulle partite di calcio, dalla mattina alla sera, senza mai smettere. Quelli lo facevano sentire così solo che certe volte doveva abbandonare di colpo la tabaccheria e scappar fuori a far un giro verso le mura.
Che fosse un tipo troppo sensibile rispetto alla cittadinanza media, non c’è dubbio. Era un ragionatore implacabile, con i nervi sempre tirati. Questo si notava dal suo modo di stringere la bocca, con le smorfie di quando uno mangia una cosa amara. Ragionando sui problemi che gli vangavano la mente, si sentiva così solo nei suoi pensieri che dopo vedeva del marcio dappertutto. Prima aveva una fidanzata bella e simpatica, ma un giorno s’era messo a ragionare anche su quello ed era arrivato a concludere che c’era del marcio anche tra loro, perché erano due estranei che facevano finta di non esserlo soltanto per tirare avanti: dunque anche loro degli ipocriti come tanta gente sposata. Per cui l’aveva convinta a lasciarlo.
Mi ricordo certe nostre passeggiate in campagna, dove tutto quello che vedeva lo faceva soffrire. Ma poniamo che uno gli dicesse: «Guarda la natura, Zoffi! Non ti dice niente la natura? Non è bella la natura?». Il giorno dopo gli veniva una spaventosa eruzione di brufoli, perché quello era il suo punto dolente: la perduta dolcezza della natura, assieme a tante altre dolcezze perdute senza ritorno. C’era però anche un altro motivo che va detto; ed è che lui pensava a una certa Urania, nipote di sua madre, perché s’era preso una cotta vedendola ben fatta, con occhi neri e capelli che scendevano a boccoli sulla camicetta col pizzo. E dopo aveva l’idea che solo assieme a lei avrebbe gustato le dolcezze della natura, mentre senza di lei non avevano nessun senso. Ma l’Urania era sposata con un impiegato bancario di nome Bacchini, dunque impossibile da avvicinare. Allora più lui ci pensava e più si vedeva separato da tutto il resto per il fatto d’essere separato dall’Urania. A volte nella tabaccheria ci pensava tanto che i clienti vedevano spuntargli in faccia a vista d’occhio dei brufoli grossi come ascessi. Era il segno del suo martirio, come le piaghe di Cristo sulle mani dei santi.

L’amico a cui Zoffi teneva di più era il professor Amos, che a quei tempi doveva essere già sui cinquant’anni. Grassoccio, con abiti vecchi e cascanti, la sigaretta sempre accesa tra le labbra, prima insegnava filosofia al nostro liceo, poi l’avevano mandato via come ubriacone indecoroso. Non era un traballante come i soliti ubriachi, ma a forza di bere aveva sempre sulle labbra un sorriso insensato. Quel sorriso andava assieme alla sua mania di fare dei commenti da ridere su tutto, che però facevano ridere poco e spesso infastidivano la gente, soprattutto nelle osterie dove si fermava a bere secondo un ordine di tappe fisse. Per giunta Amos aveva l’altra mania di infilare nei suoi discorsi delle parole in tedesco, come «Natürlich», «Jawhol», oppure «Ach so!». Parole che davano sui nervi alla plebe da osteria.

Sul circuito dei posti dove si fermava a bere c’era la tabaccheria Zoffi; e anche lì faceva una sosta, per comprar sigarette e ascoltare le discussioni con i pensionati, o parlare con certe massaie del quartiere che lo trovavano simpatico. Era accolto da tutti con segni di riguardo: «Come va professore?». Al che lui rispondeva regolarmente in tedesco, con quei sorrisi di contentezza insensata: «Wunderbar!». Zoffi gli spiegava i ragionamenti che gli riempivano la testa e Amos gli dava sempre ragione: «Natürlich». Non si è mai vista una volta che abbia dato torto a qualcuno, anche se non si capiva se lo facesse per ridere o per altri motivi. I pensionati restavano molto frastornati dalle sue uscite strambe, ma lui non sfotteva nessuno, questo posso assicurarlo. Soltanto che, tra il fatto che era stato professore di filosofia e il fatto che era sempre più o meno alticcio, le sue battute non erano mai a prezzi popolari.

La tabaccheria era uno stanzone grigio e nudo, nel quartiere Carrozze. Sulla porta c’era scritto tabaccheria, ma altre targhette dicevano olio, pasta, oppure conserve, perché quando il padre di Zoffi l’aveva comperata era una drogheria, e dopo nessuno aveva mai pensato di levare via le altre targhette. Zoffi passava le sue giornate discutendo con i vecchi pensionati fumatori di sigaro dei paraggi, che si riunivano lì mattina e pomeriggio per passare il loro tempo da pensionati. A volte nel pomeriggio arrivavo anch’io, assieme a Fregatti e Barattieri; e restavamo in piedi ad ascoltare i ragionamenti del nostro amico con i pensionati, i quali sospiravano per la fatica che facevano a tenergli dietro nei discorsi.
L’usuale procedura era questa: appena qualcuno nella tabaccheria enunciava un’idea, Zoffi faceva subito una delle sue riflessioni che lo portava a trovarci del marcio, ossia una qualche potente falsità degli uomini e del mondo. I pensionati protestavano: «Eh, ma a lei non va bene niente! È mai possibile che al mondo sia tutto sbagliato?». E Zoffi diceva: «Se lei ci pensa bene, vedrà che ho ragione». Infatti a filo di logica non aveva mai torto; lui faceva dei ragionamenti così logici che lasciavano di stucco, e alla fine bisognava dargli ragione. Ma per i vecchi pensionati era difficile ammettere tutto quel marcio che lui trovava dappertutto. Allora, poniamo, se davanti alla tabaccheria passava una donna che menava i fianchi in modo da far ringalluzzire i loro occhi, loro tentavano di giocare quell’ultima carta: «E lì, cosa ci trova da dire? Eh, Zoffi? Sentiamo! Sentiamo che ragionamento ci fa!».
L’interesse dei pensionati per le donne diventava a volte imbarazzante, specie quando passava dalla tabaccheria la madre di Zoffi, la signora Giunone. Lei era una vedova spavalda con capelli tinti di biondo, che camminava tenendo la testa alta, le spalle dritte e molto all’indietro, di modo che il petto venisse molto in avanti. Grossa dappertutto, portava tacchi così alti che le davano slancio in verticale, e sottane così strette che formavano un conoide ribaltato. Dall’alto dei suoi tacchi, la signora Giunone guardava tutti dall’alto in basso, come una che non ha bisogno di nessuno, essendo tra l’altro molto fiera del proprio personale. Il che si notava bene quando ti passava davanti nella tabaccheria, a capo eretto, passo deciso ma anche molleggiato, che produceva un complesso movimento delle sue parti posteriori.
Suo figlio non la sopportava neanche un secondo; appena la vedeva arrivare in tabaccheria gli spuntava una smorfia di sofferenza sulla bocca. Ma la sua sofferenza più grande era questa: che appena sua madre compariva nel negozio, ai vecchi pensionati brillavano gli occhi dall’eccitazione. Inoltre quegli occhi non si peritavano neanche un po’ di scivolare sul sedere della signora Giunone, che lei passando squassava con forti mosse come per fare beneficenza ai pensionati. In quei momenti suo figlio avrebbe voluto scomparire dalla tabaccheria e dalla faccia della terra, perché vedeva che anche in quei vecchi fumatori di sigaro c’era del falso e del losco. Se sul marciapiede passava una donna muovendo i fianchi, loro erano sempre pronti ai commenti: «Ha visto che roba, Zoffi? Eh? Cosa ne dice?». Ma quando passava sua madre squassando il sedere più di tutte le altre, piombavano nel silenzio assoluto, un silenzio così imbarazzante che rivelava tutto il marcio della situazione.

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Su RadioEmiliaRomagna si possono ascoltare altre storie dei “pascolanti” di Gianni Celati, tra cui quella di Bordignoni.

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Musiche
Francesco De Gregori – “Quattro cani”
Vinicio Capossela – “Si è spento il sole”
Calexico – “Gypsy’s Curse”
Franco Battiato – “Bandiera Bianca”

Brano corrente

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